Francesco
Petrarca Il Canzoniere - Rerum vulgarium fragmenta - Canzonen, Sestinen, Balladen, Madrigale Der Canzoniere wird oft als "Sonettzyklus" bezeichnet, was nicht ganz richtig ist. Sonette machen zwar den größten Teil der Texte aus, 317 von 366, doch immerhin 49 Texte sind von anderer Form, 29 Canzonen (mehrere längere Strophen mit gleicher Verszahl, Siebensilber und Elfsilber), 9 Sestinen (geprägt durch sechs sechsversige Strophen +), 7 Balladen (3 Strophen) und 4 Madrigale (3x3 Verse +). Ich habe sie hier zusammengefasst. Diese Texte werden seltener übersetzt als die Sonette, was teilweise an ihre Länge liegt, die nicht immer mit einem entsprechenden übersetzenswerten Gehalt korreliert. Die drei Canzonen auf Lauras Augen etwa (LXXI bis LXXIII) stellen die Geduld von Übersetzern und auch Lesern doch sehr auf die Probe. In der zweiten dieser Canzonen bekennt der Autor/das lyrische Ich: "Nè gia mai lingua umana/contar porìa quel che le due divine/luci sentir mi fanno". Das mag Rhetorik sein, man ist allerdings geneigt, dem Autor hier etwas erschöpft zuzustimmen. Auch ich biete hier keine Übersetzungen, sondern die freien bildlichen Interpretationen von Svenja Rehse. Die Kleinbuchstaben hinter den Zahlen markieren die Zählwortendung. "1a" bedeutet also "prima", "1o" verweist auf ein Maskulinum, als "primo". Die Sonette finden Sie - teilweise mit Übersetzungen - hier: Sonetti 1-70 (Canzoniere I-XCI - Herbst) Sonetti 71-148 (Canzoniere XCII-CLXXXI - Winter) Sonetti 149-232 (Canzoniere CLXXXII-CCLXXIII - Frühling) Sonetti 233-317 (Canzoniere CCLXXIV-CCCLXVI - Sommer) |
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bilder gemalt von: svenja rehse |
XI (Ballata 1a) Lassare il velo o per sole o per ombra, donna, non vi vid’io, poi che in me conosceste il gran desio ch’ogni altra voglia d’entr’al cor mi sgombra. Mentr’io portava i be’ pensier celati, ch’hanno la mente desïando morta, vidivi di pietate ornare il volto; ma poi ch’Amor di me vi fece accorta, fuor i biondi capelli allor velati, e l’amoroso sguardo in sè raccolto. Quel ch’i’ più desïava in voi m’è tolto: sì mi governa il velo che per mia morte, ed al caldo ed al gielo, de’ be’ vostr’occhi il dolce lume adombra. |
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Lassare il
velo o per sole o per ombra |
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XIV (Ballata 2a) Occhi miei lassi, mentre ch’io vi giro nel bel viso di quella che v’ha morti, pregovi, siate accorti, chè già vi sfida Amore, ond’io sospiro. Morte può chiuder sola a’ miei penseri l’amoroso cammin che gli conduce al dolce porto de la lor salute; ma puossi a voi celar la vostra luce per meno oggetto, perché meno interi siete formati, e di minor virtute. Però, dolenti, anzi che sian venute l’ore del pianto, che son già vicine, prendete or a la fine breve conforto a sì lungo martiro. |
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breve conforto a sì
lungo martiro |
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XXII (Sestina 1a) A qualunque animale alberga in terra, se non se alquanti ch’hanno in odio il sole, tempo da travagliare è quanto è ’l giorno; ma poi che ’l ciel accende le sue stelle, qual torna a casa e qual s’anida in selva per aver posa almeno infin a l’alba. Ed io, da che comincia la bella alba a scuoter l’ombra intorno de la terra svegliando gli animali in ogni selva, non ò mai triegua di sospir’ col sole; poi quand’io veggio fiammeggiar le stelle vo lagrimando, e disïando il giorno. Quando la sera scaccia il chiaro giorno, e le tenebre nostre altrui fanno alba, miro pensoso le crudeli stelle, che m’hanno fatto di sensibil terra; e maledico il dì ch’i’ vidi ’l sole, e che mi fa in vista un uom nudrito in selva. Non credo che pascesse mai per selva sí aspra fera, o di nocte o di giorno, come costei ch’i ’piango a l’ombra e al sole; et non mi stancha primo sonno od alba: ché, bench’i’ sia mortal corpo di terra, lo mio fermo desir vien da le stelle. Prima ch’i’ torni a voi, lucenti stelle, o tomi[1] giú ne l’amorosa selva, lassando il corpo che fia trita terra, vedess’io in lei pietà, che ’n un sol giorno può ristorar molt’anni, e ’nanzi l’alba puommi arichir dal tramontar del sole. Con lei foss’io da che si parte il sole, et non ci vedess’altri che le stelle, sol una nocte, et mai non fosse l’alba; et non se transformasse in verde selva per uscirmi di braccia, come il giorno ch’Apollo la seguia qua giú per terra. Ma io sarò sotterra in secca selva e ’l giorno andrà pien di minute stelle prima ch’a sí dolce alba arrivi il sole. |
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qual torna a casa e qual s’anida in selva | |
XXIII (Canzone 1a) Nel dolce tempo de la prima etade, che nascer vide ed anchor quasi in erba la fera voglia che per mio mal crebbe, perché cantando il duol si disacerba, canterò com’io vissi in libertade, mentre Amor nel mio albergo a sdegno s’ebbe. Poi seguirò sì come a lui ne ’ncrebbe troppo altamente, e che di ciò m’avenne, di ch’io son fatto a molta gente exempio: benchè ’l mio duro scempio sia scripto altrove, sì che mille penne ne son già stanche, e quasi in ogni valle rimbombi il suon de’ miei gravi sospiri, ch’aquistan fede a la penosa vita. E se qui la memoria non m’aita come suol fare, iscùsilla i martiri, ed un penser che solo angoscia dàlle, tal ch’ad ogni altro fa voltar le spalle, e mi face oblïar me stesso a forza: ch' e' ten di me quel d’entro, ed io la scorza. I’ dico che dal dí che ’l primo assalto mi diede Amor, molt’anni eran passati, sí ch’io cangiava il giovenil aspetto; e d’intorno al mio cor pensier’ gelati facto avean quasi adamantino smalto ch’allentar non lassava il duro affetto. Lagrima anchor non mi bagnava il petto né rompea il sonno, et quel che in me non era, mi pareva un miracolo in altrui. Lasso, che son! che fui! La vita el fin, e ’l dí loda la sera. Ché sentendo il crudel di ch’io ragiono infin allor percossa di suo strale non essermi passato oltra la gonna, prese in sua scorta una possente donna, ver’ cui poco già mai mi valse o vale ingegno, o forza, o dimandar perdono; e i duo mi trasformaro in quel ch’i’ sono, facendomi d’uom vivo un lauro verde, che per fredda stagion foglia non perde. Qual mi fec’io quando primer m’accorsi de la trasfigurata mia persona, e i capei vidi far di quella fronde di che sperato avea già lor corona, e i piedi in ch’io mi stetti, et mossi, et corsi, com’ogni membro a l’anima risponde, diventar due radici sovra l’onde non di Peneo, ma d’un piú altero fiume, e n’ duo rami mutarsi ambe le braccia! Né meno anchor m’agghiaccia l’esser coverto poi di bianche piume allor che folminato et morto giacque il mio sperar che tropp’alto montava: ché perch’io non sapea dove né quando me ’l ritrovasse, solo lagrimando là ’ve tolto mi fu, dí e nocte andava, ricercando dallato, et dentro a l’acque; et già mai poi la mia lingua non tacque mentre poteo del suo cader maligno: ond’io presi col suon color d’un cigno. Cosí lungo l’amate rive andai, che volendo parlar, cantava sempre mercé chiamando con estrania voce; né mai in sí dolci o in sí soavi tempre risonar seppi gli amorosi guai, che ’l cor s’umilïasse aspro et feroce. Qual fu a sentir? ché ’l ricordar mi coce: ma molto piú di quel, che per inanzi de la dolce et acerba mia nemica è bisogno ch’io dica, benché sia tal ch’ogni parlare avanzi. Questa che col mirar gli animi fura, m’aperse il petto, e ’l cor prese con mano, dicendo a me: Di ciò non far parola. Poi la rividi in altro habito sola, tal ch’i’ non la conobbi, oh senso humano, anzi le dissi ’l ver pien di paura; ed ella ne l’usata sua figura tosto tornando, fecemi, oimè lasso, d’un quasi vivo et sbigottito sasso. Ella parlava sí turbata in vista, che tremar mi fea dentro a quella petra, udendo: I’ non son forse chi tu credi. E dicea meco: Se costei mi spetra, nulla vita mi fia noiosa o trista; a farmi lagrimar, signor mio, riedi. Come non so: pur io mossi indi i piedi, non altrui incolpando che me stesso, mezzo tutto quel dí tra vivo et morto. Ma perché ’l tempo è corto, la penna al buon voler non pò gir presso: onde piú cose ne la mente scritte vo trapassando, et sol d’alcune parlo che meraviglia fanno a chi l’ascolta. Morte mi s’era intorno al cor avolta, né tacendo potea di sua man trarlo, o dar soccorso a le vertuti afflitte; le vive voci m’erano interditte; ond’io gridai con carta et con incostro: Non son mio, no. S’io moro, il danno è vostro. Ben mi credea dinanzi agli occhi suoi d’indegno far cosí di mercé degno, et questa spene m’avea fatto ardito: ma talora humiltà spegne disdegno, talor l’enfiamma; et ciò sepp’io da poi, lunga stagion di tenebre vestito: ch’a quei preghi il mio lume era sparito. Ed io non ritrovando intorno intorno ombra di lei, né pur de’ suoi piedi orma, come huom che tra via dorma, gittaimi stancho sovra l’erba un giorno. Ivi accusando il fugitivo raggio, a le lagrime triste allargai ’l freno, et lasciaile cader come a lor parve; né già mai neve sotto al sol disparve com’io sentí’ me tutto venir meno, et farmi una fontana a pie’ d’un faggio. Gran tempo humido tenni quel vïaggio. Chi udí mai d’uom vero nascer fonte? E parlo cose manifeste et conte. L’alma ch’è sol da Dio facta gentile, ché già d’altrui non pò venir tal gratia, simile al suo factor stato ritene: però di perdonar mai non è sacia a chi col core et col sembiante humile dopo quantunque offese a mercé vène. Et se contra suo stile ella sostene d’esser molto pregata, in Lui si specchia, et fal perché ’l peccar piú si pavente: ché non ben si ripente de l’un mal chi de l’altro s’apparecchia. Poi che madonna da pietà commossa degnò mirarme, et ricognovve et vide gir di pari la pena col peccato, benigna mi redusse al primo stato. Ma nulla à ’l mondo in ch’uom saggio si fide: ch’ancor poi ripregando, i nervi et l’ossa mi volse in dura selce; et così scossa voce rimasi de l’antiche some, chiamando Morte, et lei sola per nome. Spirto doglioso errante (mi rimembra) per spelunche deserte et pellegrine, piansi molt’anni il mio sfrenato ardire: et anchor poi trovai di quel mal fine, et ritornai ne le terrene membra, credo per piú dolore ivi sentire. I’ seguí’ tanto avanti il mio desire ch’un dí cacciando sí com’io solea mi mossi; e quella fera bella et cruda in una fonte ignuda si stava, quando ’l sol piú forte ardea. Io, perché d’altra vista non m’appago, stetti a mirarla: ond’ella ebbe vergogna; et per farne vendetta, o per celarse, l’acqua nel viso co le man’ mi sparse. Vero dirò (forse e’ parrà menzogna) ch’i’ sentí’ trarmi de la propria imago, et in un cervo solitario et vago di selva in selva ratto mi trasformo: et anchor de’ miei can’ fuggo lo stormo. Canzon, i’ non fu’ mai quel nuvol d’oro che poi discese in pretïosa pioggia, sí che ’l foco di Giove in parte spense; ma fui ben fiamma ch’un bel guardo accense, et fui l’uccel che piú per l’aere poggia, alzando lei che ne’ miei detti honoro: né per nova figura il primo alloro seppi lassar, ché pur la sua dolce ombra ogni men bel piacer del cor mi sgombra. |
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Nel dolce tempo de la prima etade | |
XXVIII (Canzone 2a) O aspectata in ciel beata et bella anima che di nostra humanitade vestita vai, non come l’altre carca: perché ti sian men dure omai le strade, a Dio dilecta, obedïente ancella, onde al suo regno di qua giú si varca, ecco novellamente a la tua barca, ch’al cieco mondo à già volte le spalle per gir al miglior porto, d’un vento occidental dolce conforto; lo qual per mezzo questa oscura valle, ove piangiamo il nostro et l’altrui torto, la condurrà de’ lacci antichi sciolta, per dritissimo calle, al verace orïente ov’ella è volta. Forse i devoti et gli amorosi preghi et le lagrime sancte de’ mortali son giunte inanzi a la pietà superna; et forse non fur mai tante né tali che per merito lor punto si pieghi fuor de suo corso la giustitia eterna; ma quel benigno re che ’l ciel governa al sacro loco ove fo posto in croce gli occhi per gratia gira, onde nel petto al novo Karlo spira la vendetta ch’a noi tardata nòce, sí che molt’anni Europa ne sospira: cosí soccorre a la sua amata sposa tal che sol de la voce fa tremar Babilonia, et star pensosa. Chïunque alberga tra Garona e ’l monte e ’ntra ’l Rodano e ’l Reno et l’onde salse le ’nsegne cristianissime accompagna; et a cui mai di vero pregio calse, dal Pireneo a l’ultimo orizonte con Aragon lassarà vòta Hispagna; Inghilterra con l’isole che bagna l’Occeano intra ’l Carro et le Colonne, infin là dove sona doctrina del sanctissimo Elicona, varie di lingue et d’arme, et de le gonne, a l’alta impresa caritate sprona. Deh qual amor sí licito o sí degno, qua’ figli mai, qua’ donne furon materia a sí giusto disdegno? Una parte del mondo è che si giace mai sempre in ghiaccio et in gelate nevi tutta lontana dal camin del sole: là sotto i giorni nubilosi et brevi, nemica naturalmente di pace, nasce una gente a cui il morir non dole. Questa se, piú devota che non sòle, col tedesco furor la spada cigne, turchi, arabi et caldei, con tutti quei che speran nelli dèi di qua dal mar che fa l’onde sanguigne, quanto sian da prezzar, conoscer dêi: popolo ignudo paventoso et lento, che ferro mai non strigne, ma tutt’i colpi suoi commette al vento. Dunque ora è ’l tempo da ritrare il collo dal giogo antico, et da squarciare il velo ch’è stato avolto intorno agli occhi nostri, et che ’l nobile ingegno che dal cielo per gratia tien’ de l’immortale Apollo, et l’eloquentia sua vertú qui mostri or con la lingua, or co’laudati incostri: perché d’Orpheo leggendo et d’Amphïone se non ti meravigli, assai men fia ch’Italia co’ suoi figli si desti al suon del tuo chiaro sermone, tanto che per Iesú la lancia pigli; che s’al ver mira questa anticha madre, in nulla sua tentione fur mai cagion’ sí belle o sí leggiadre. Tu ch’ài, per arricchir d’un bel thesauro, volte l’antiche et le moderne carte, volando al ciel colla terrena soma, sai da l’imperio del figliuol de Marte al grande Augusto che di verde lauro tre volte trïumphando ornò la chioma, ne l’altrui ingiurie del suo sangue Roma spesse fïate quanto fu cortese: et or perché non fia cortese no, ma conoscente et pia a vendicar le dispietate offese, col figliuol glorïoso di Maria? Che dunque la nemica parte spera ne l’umane difese, se Cristo sta da la contraria schiera? Pon’ mente al temerario ardir di Xerse, che fece per calcare i nostri liti di novi ponti oltraggio a la marina; et vedrai ne la morte de’ mariti tutte vestite a brun le donne perse, et tinto in rosso il mar di Salamina. Et non pur questa misera rüina del popol infelice d’orïente victoria t’empromette, ma Marathona, et le mortali strette che difese il leon con poca gente, et altre mille ch’ài ascoltate et lette: perché inchinare a Dio molto convene le ginocchia et la mente, che gli anni tuoi riserva a tanto bene. Tu vedrai Italia et l’onorata riva, canzon, ch’agli occhi miei cela et contende non mar, non poggio o fiume, ma solo Amor che del suo altero lume piú m’invaghisce dove piú m’incende: né Natura può star contra’l costume. Or movi, non smarrir l’altre compagne, ché non pur sotto bende alberga Amor, per cui si ride et piagne. |
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Una parte del mondo è che si giace | |
XXIX (Canzone 3a) Verdi panni, sanguigni, oscuri o persi non vestí donna unquancho né d’òr capelli in bionda treccia attorse, sí bella com’è questa che mi spoglia d’arbitrio, et dal camin de libertade seco mi tira, sí ch’io non sostegno alcun giogo men grave. Et se pur s’arma talor a dolersi l’anima a cui vien mancho consiglio, ove ’l martir l’adduce in forse, rappella lei da la sfrenata voglia súbita vista, ché del cor mi rade ogni delira impresa, et ogni sdegno fa ’l veder lei soave. Di quanto per Amor già mai soffersi, et aggio a soffrir ancho, fin che mi sani ’l cor colei che ’l morse, rubella di mercé, che pur l’envoglia, vendetta fia, sol che contra Humiltade Orgoglio et Ira il bel passo ond’io vegno non chiuda et non inchiave. Ma l’ora e ’l giorno ch’io le luci apersi nel bel nero et nel biancho che mi scacciâr di là dove Amor corse, novella d’esta vita che m’ addoglia furon radice, et quella in cui l’etade nostra si mira, la qual piombo o legno vedendo è chi non pave. Lagrima dunque che dagli occhi versi per quelle, che nel mancho lato mi bagna chi primier s’accorse, quadrella, dal voler mio non mi svoglia, ché ’n giusta parte la sententia cade: per lei sospira l’alma, et ella è degno che le sue piaghe lave. Da me son fatti i miei pensier’ diversi: tal già, qual io mi stancho, l’amata spada in se stessa contorse; né quella prego che però mi scioglia, ché men son dritte al ciel tutt’altre strade et non s’aspira al glorïoso regno certo in piú salda nave. Benigne stelle che compagne fersi al fortunato fianco quando ’l bel parto giú nel mondo scórse! ch’è stella in terra, et come in lauro foglia conserva verde il pregio d’onestade, ove non spira folgore, né indegno vento mai che l’aggrave. So io ben ch’a voler chiuder in versi suo laudi, fôra stancho chi piú degna la mano a scriver porse: qual cella è di memoria in cui s’accoglia quanta vede vertú, quanta beltade, chi gli occhi mira d’ogni valor segno, dolce del mio cor chiave? Quanto il sol gira, Amor piú caro pegno, donna, di voi non ave. |
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Verdi panni, sanguigni, oscuri o persi | |
XXX (Sestina 2a) Giovene donna sotto un verde lauro vidi piú biancha et piú fredda che neve non percossa dal sol molti et molt’anni; e ’l suo parlare, e ’l bel viso, et le chiome mi piacquen sí ch’i’ l’ò dinanzi agli occhi, ed avrò sempre, ov’io sia, in poggio o ’n riva. Allor saranno i miei pensier a riva che foglia verde non si trovi in lauro; quando avrò queto il core, asciutti gli occhi, vedrem ghiacciare il foco, arder la neve: non ò tanti capelli in queste chiome quanti vorrei quel giorno attender anni. Ma perché vola il tempo, et fuggon gli anni, sí ch’a la morte in un punto s’arriva, o colle brune o colle bianche chiome, seguirò l’ombra di quel dolce lauro per lo piú ardente sole et per la neve, fin che l’ultimo dí chiuda quest’occhi. Non fur già mai veduti sí begli occhi o ne la nostra etade o ne’ prim’anni, che mi struggon cosí come ’l sol neve; onde procede lagrimosa riva ch’Amor conduce a pie’ del duro lauro ch’à i rami di diamante, et d’òr le chiome. I’ temo di cangiar pria volto et chiome che con vera pietà mi mostri gli occhi l’idolo mio, scolpito in vivo lauro: ché s’al contar non erro, oggi à sett’anni che sospirando vo di riva in riva la notte e ’l giorno, al caldo ed a la neve. Dentro pur foco, et for candida neve, sol con questi pensier’, con altre chiome, sempre piangendo andrò per ogni riva, per far forse pietà venir negli occhi di tal che nascerà dopo mill’anni, se tanto viver pò ben cólto lauro. L’auro e i topacii al sol sopra la neve vincon le bionde chiome presso agli occhi che menan gli anni miei sí tosto a riva. |
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Giovene donna sotto un verde lauro | |
XXXVII (Canzone 4a) Sí è debile il filo a cui s’attene la gravosa mia vita che, s’altri non l’aita, ella fia tosto di suo corso a riva; però che dopo l’empia dipartita che dal dolce mio bene feci, sol una spene è stato infin a qui cagion ch’io viva, dicendo: Perché priva sia de l’amata vista, mantienti, anima trista; che sai s’a miglior tempo ancho ritorni et a piú lieti giorni, o se ’l perduto ben mai si racquista? Questa speranza mi sostenne un tempo: or vien mancando, et troppo in lei m’attempo. Il tempo passa, et l’ore son sí pronte a fornire il vïaggio, ch’assai spacio non aggio pur a pensar com’io corro a la morte: a pena spunta in orïente un raggio di sol, ch’a l’altro monte de l’adverso orizonte giunto il vedrai per vie lunghe et distorte. Le vite son sí corte, sí gravi i corpi et frali degli uomini mortali, che quando io mi ritrovo dal bel viso cotanto esser diviso, col desio non possendo mover l’ali, poco m’avanza del conforto usato, né so quant’io mi viva in questo stato. Ogni loco m’atrista ov’io non veggio quei begli occhi soavi che portaron le chiavi de’ miei dolci pensier’, mentre a Dio piacque; et perché ’l duro exilio piú m’aggravi, s’io dormo o vado o seggio, altro già mai non cheggio, et ciò ch’i’ vidi dopo lor mi spiacque. Quante montagne et acque, quanto mar, quanti fiumi m’ascondon que’ duo lumi, che quasi un bel sereno a mezzo ’l die fer le tenebre mie, a ciò che ’l rimembrar piú mi consumi, et quanto era mia vita allor gioiosa m’insegni la presente aspra et noiosa! Lasso, se ragionando si rinfresca quel’ardente desio che nacque il giorno ch’io lassai di me la miglior parte a dietro, et s’Amor se ne va per lungo oblio, chi mi conduce a l’ésca, onde ’l mio dolor cresca? Et perché pria tacendo non m’impetro? Certo cristallo o vetro non mostrò mai di fore nascosto altro colore, che l’alma sconsolata assai non mostri piú chiari i pensier’ nostri, et la fera dolcezza ch’è nel core, per gli occhi che di sempre pianger vaghi cercan dí et nocte pur chi glien’appaghi. Novo piacer che negli umani ingegni spesse volte si trova, d’amar qual cosa nova piú folta schiera di sospiri accoglia! Et io son un di quei che ’l pianger giova; et par ben ch’io m’ingegni che di lagrime pregni sien gli occhi miei sí come ’l cor di doglia; et perché a·cciò m’invoglia ragionar de’ begli occhi, né cosa è che mi tocchi o sentir mi si faccia cosí a dentro, corro spesso, et rïentro, colà donde piú largo il duol trabocchi, et sien col cor punite ambe le luci, ch’a la strada d’Amor mi furon duci. Le treccie d’òr che devrien fare il sole d’invidia molta ir pieno, e ’l bel guardo sereno, ove i raggi d’Amor sí caldi sono che mi fanno anzi tempo venir meno, et l’accorte parole, rade nel mondo o sole, che mi fer già di sé cortese dono, mi son tolte; et perdono piú lieve ogni altra offesa, che l’essermi contesa quella benigna angelica salute che ’l mio cor a vertute destar solea con una voglia accesa: tal ch’io non penso udir cosa già mai che mi conforte ad altro ch’a trar guai. Et per pianger anchor con piú diletto, le man’ bianche sottili et le braccia gentili, et gli atti suoi soavemente alteri, e i dolci sdegni alteramente humili, e ’l bel giovenil petto, torre d’alto intellecto, mi celan questi luoghi alpestri et feri; et non so s’io mi speri vederla anzi ch’io mora: però ch’ad ora ad ora s’erge la speme, et poi non sa star ferma, ma ricadendo afferma di mai non veder lei che ’l ciel honora, ov’alberga Honestate et Cortesia, et dov’io prego che ’l mio albergo sia. Canzon, s’al dolce loco la donna nostra vedi, credo ben che tu credi ch’ella ti porgerà la bella mano, ond’io son sí lontano. Non la tocchar; ma reverente ai piedi le di’ ch’io sarò là tosto ch’io possa, o spirto ignudo od uom di carne et d’ossa. |
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Sí è debile il filo
a cui s’attene la gravosa mia vita |
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L (Canzone 5a) Ne la stagion che ’l ciel rapido inchina verso occidente, et che ’l dí nostro vola a gente che di là forse l’aspetta, veggendosi in lontan paese sola, la stancha vecchiarella pellegrina raddoppia i passi, et piú et piú s’affretta; et poi cosí soletta al fin di sua giornata talora è consolata d’alcun breve riposo, ov’ella oblia la noia e ’l mal de la passata via. Ma, lasso, ogni dolor che ’l dí m’adduce cresce qualor s’invia per partirsi da noi l’eterna luce. Come ’l sol volge le ’nfiammate rote per dar luogo a la notte, onde discende dagli altissimi monti maggior l’ombra, l’avaro zappador l’arme riprende, et con parole et con alpestri note ogni gravezza del suo petto sgombra; et poi la mensa ingombra di povere vivande, simili a quelle ghiande, le qua’ fuggendo tutto ’l mondo honora. Ma chi vuol si rallegri ad ora ad ora, ch’i’ pur non ebbi anchor, non dirò lieta, ma riposata un’hora, né per volger di ciel né di pianeta. Quando vede ’l pastor calare i raggi del gran pianeta al nido ov’egli alberga, e ’nbrunir le contrade d’orïente, drizzasi in piedi, et co l’usata verga, lassando l’erba et le fontane e i faggi, move la schiera sua soavemente; poi lontan da la gente o casetta o spelunca di verdi frondi ingiuncha: ivi senza pensier’ s’adagia et dorme. Ahi crudo Amor, ma tu allor piú mi ’nforme a seguir d’una fera che mi strugge, la voce e i passi et l’orme, et lei non stringi che s’appiatta et fugge. E i naviganti in qualche chiusa valle gettan le membra, poi che ’l sol s’asconde, sul duro legno, et sotto a l’aspre gonne. Ma io, perché s’attuffi in mezzo l’onde, et lasci Hispagna dietro a le sue spalle, et Granata et Marroccho et le Colonne, et gli uomini et le donne e ’l mondo et gli animali aquetino i lor mali, fine non pongo al mio obstinato affanno; et duolmi ch’ogni giorno arroge al danno, ch’i’ son già pur crescendo in questa voglia ben presso al decim’anno, né poss’indovinar chi me ne scioglia. Et perché un poco nel parlar mi sfogo, veggio la sera i buoi tornare sciolti da le campagne et da’ solcati colli: i miei sospiri a me perché non tolti quando che sia? perché no ’l grave giogo? perché dí et notte gli occhi miei son molli? Misero me, che volli quando primier sí fiso gli tenni nel bel viso per iscolpirlo imaginando in parte onde mai né per forza né per arte mosso sarà, fin ch’i’ sia dato in preda a chi tutto diparte! Né so ben ancho che di lei mi creda. Canzon, se l’esser meco dal matino a la sera t’à fatto di mia schiera, tu non vorrai mostrarti in ciascun loco; et d’altrui loda curerai sí poco, ch’assai ti fia pensar di poggio in poggio come m’à concio ’l foco di questa viva petra, ov’io m’appoggio. |
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Quando vede ’l pastor calare i raggi | |
LII (Madrigale 1o) Non al suo amante più Dïana piacque quando per tal ventura tutta ignuda la vide in mezzo de le gelide acque, ch’a me la pastorella alpestra e cruda posta a bagnar un leggiadretto velo ch’a l’aura il vago e biondo capel chiuda, tal che mi fece, or quand’egli arde ’l cielo, tutto tremar d’un amoroso gelo. |
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tutto tremar d’un amoroso gelo | |
LIII (Canzone 6a) Spirto gentil, che quelle membra reggi dentro le qua' peregrinando alberga un signor valoroso, accorto et saggio, poi che se' giunto a l'onorata verga colla qual Roma et suoi erranti correggi, et la richiami al suo antiquo vïaggio, io parlo a te, però ch'altrove un raggio non veggio di vertú, ch'al mondo è spenta, né trovo chi di mal far si vergogni. Che s'aspetti non so, né che s'agogni, Italia, che suoi guai non par che senta: vecchia, otïosa et lenta, dormirà sempre, et non fia chi la svegli? Le man' l'avess'io avolto entro' capegli. Non spero che già mai dal pigro sonno mova la testa per chiamar ch'uom faccia, sí gravemente è oppressa et di tal soma; ma non senza destino a le tue braccia, che scuoter forte et sollevarla ponno, è or commesso il nostro capo Roma. Pon' man in quella venerabil chioma securamente, et ne le treccie sparte, sí che la neghittosa esca del fango. I' che dí et notte del suo strazio piango, di mia speranza ò in te la maggior parte: che se 'l popol di Marte devesse al proprio honore alzar mai gli occhi, parmi pur ch'a' tuoi dí la gratia tocchi. L'antiche mura ch'anchor teme et ama et trema 'l mondo, quando si rimembra del tempo andato e 'n dietro si rivolve, e i sassi dove fur chiuse le membra di ta' che non saranno senza fama, se l'universo pria non si dissolve, et tutto quel ch'una ruina involve, per te spera saldar ogni suo vitio. O grandi Scipïoni, o fedel Bruto, quanto v'aggrada, s'egli è anchor venuto romor là giú del ben locato officio! Come cre' che Fabritio si faccia lieto, udendo la novella! Et dice: Roma mia sarà anchor bella. Et se cosa di qua nel ciel si cura, l'anime che lassú son citadine, et ànno i corpi abandonati in terra, del lungo odio civil ti pregan fine, per cui la gente ben non s'assecura, onde 'l camin a' lor tecti si serra: che fur già sí devoti, et ora in guerra quasi spelunca di ladron' son fatti, tal ch'a' buon' solamente uscio si chiude, et tra gli altari et tra le statue ignude ogni impresa crudel par che se tratti. Deh quanto diversi atti! Né senza squille s'incommincia assalto, che per Dio ringraciar fur poste in alto. Le donne lagrimose, e 'l vulgo inerme de la tenera etate, e i vecchi stanchi ch'ànno sé in odio et la soverchia vita, e i neri fraticelli e i bigi e i bianchi, coll'altre schiere travagliate e 'nferme, gridan: O signor nostro, aita, aita. Et la povera gente sbigottita ti scopre le sue piaghe a mille a mille, ch'Anibale, non ch'altri, farian pio. Et se ben guardi a la magion di Dio ch'arde oggi tutta, assai poche faville spegnendo, fien tranquille le voglie, che si mostran sí 'nfiammate, onde fien l'opre tue nel ciel laudate. Orsi, lupi, leoni, aquile et serpi ad una gran marmorea colomna fanno noia sovente, et a sé danno. Di costor piange quella gentil donna che t'à chiamato a ciò che di lei sterpi le male piante, che fiorir non sanno. Passato è già piú che 'l millesimo anno che 'n lei mancâr quell'anime leggiadre che locata l'avean là dov'ell'era. Ahi nova gente oltra misura altera, irreverente a tanta et a tal madre! Tu marito, tu padre: ogni soccorso di tua man s'attende, ché 'l maggior padre ad altr'opera intende. Rade volte adiven ch'a l'alte imprese fortuna ingiurïosa non contrasti, ch'agli animosi fatti mal s'accorda. Ora sgombrando 'l passo onde tu intrasti, famisi perdonar molt'altre offese, ch'almen qui da se stessa si discorda: però che, quanto 'l mondo si ricorda, ad huom mortal non fu aperta la via per farsi, come a te, di fama eterno, che puoi drizzar, s'i' non falso discerno, in stato la piú nobil monarchia. Quanta gloria ti fia dir: Gli altri l'aitâr giovene et forte; questi in vecchiezza la scampò da morte. Sopra 'l monte Tarpeio, canzon, vedrai un cavalier, ch'Italia tutta honora, pensoso piú d'altrui che di se stesso. Digli: Un che non ti vide anchor da presso, se non come per fama huom s'innamora, dice che Roma ognora con gli occhi di dolor bagnati et molli ti chier mercé da tutti sette i colli. |
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Spirto gentil, che quelle membra reggi | |
LIV (Madrigale 2o) Per ch’al viso d’Amor portava insegna, mosse una pellegrina il mio cor vano, ch’ogni altra mi parea d’onor men degna. E lei seguendo su per l’erbe verdi, udii dir alta voce di lontano: Ahi, quanti passi per la selva perdi! Allor mi strinsi a l’ombra d’un bel faggio, tutto pensoso; e rimirando intorno, vidi assai periglioso il mio vïaggio; e tornai 'n dietro quasi a mezzo ’l giorno. |
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E lei seguendo su per l’erbe verdi | |
LV (Ballata 3a) Quel foco ch’i’ pensai che fosse spento dal freddo tempo et da l’età men fresca, fiamma et martir ne l’anima rinfresca. Non fur mai tutte spente, a quel ch’i’ veggio, ma ricoperte alquanto le faville, et temo no ’l secondo error sia peggio. Per lagrime ch’i’ spargo a mille a mille conven che ’l duol per gli occhi si distille dal cor, ch’à seco le faville et l’ésca: non pur qual fu, ma pare a me che cresca. Qual foco non avrian già spento et morto l’onde che gli occhi tristi versan sempre? Amor, avegna mi sia tardi accorto, vòl che tra duo contrari mi distempre; et tende lacci in sí diverse tempre, che quand’ò piú speranza che ’l cor n’esca, allor piú nel bel viso mi rinvesca. |
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Quel foco ch’i’ pensai che fosse spento | |
LIX (Ballata 4a) Perché quel che mi trasse ad amar prima, altrui colpa mi toglia, del mio fermo voler già non mi svoglia. Tra le chiome de l’òr nascose il laccio, al qual mi strinse, Amore; e da’ begli occhi mosse il freddo ghiaccio, che mi passò nel core, con la vertù d’un subito splendore, che d’ogni altra sua voglia sol rimembrando anchor l’anima spoglia. Tolta m’è poi di que’ biondi capelli, lasso, la dolce vista; e ’l volger de’ duo lumi honesti et belli col suo fuggir m’atrista; ma perché ben morendo honor s’acquista, per morte né per doglia non vo’ che da tal nodo Amor mi scioglia. |
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Tra le chiome de l’òr nascose il laccio | |
LXIII (Ballata 5a) Volgendo gli occhi al mio novo colore che fa di morte rimembrar la gente, pietà vi mosse; onde, benignamente salutando, teneste in vita il core. La fraile vita, ch’ancor meco alberga, fu de’ begli occhi vostri aperto dono, e de la voce angelica soave. Da lor conosco l’esser ov’io sono: ché, come suol pigro animal per verga, così destaro in me l’anima grave. Del mio cor, donna, l’una e l’altra chiave avete in mano; e di ciò son contento, presto di navigare a ciascun vento, ch’ogni cosa da voi m’è dolce honore. |
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ch’ogni cosa da voi m’è dolce honore | |
LXVI (Sestina 3a) L'aere gravato, et l'importuna nebbia compressa intorno da rabbiosi vènti tosto conven che si converta in pioggia; et già son quasi di cristallo i fiumi, e 'n vece de l'erbetta per le valli non se ved'altro che pruine et ghiaccio. Et io nel cor via piú freddo che ghiaccio ò di gravi pensier' tal una nebbia, qual si leva talor di queste valli, serrate incontra agli amorosi vènti, et circundate di stagnanti fiumi, quando cade dal ciel piú lenta pioggia. In picciol tempo passa ogni gran pioggia, e 'l caldo fa sparir le nevi e 'l ghiaccio, di che vanno superbi in vista i fiumi; né mai nascose il ciel sí folta nebbia che sopragiunta dal furor d'i vènti non fugisse dai poggi et da le valli. Ma, lasso, a me non val fiorir de valli, anzi piango al sereno et a la pioggia et a' gelati et a' soavi vènti: ch'allor fia un dí madonna senza 'l ghiaccio dentro, et di for senza l'usata nebbia, ch'i' vedrò secco il mare, e' laghi, e i fiumi. Mentre ch'al mar descenderanno i fiumi et le fiere ameranno ombrose valli, fia dinanzi a' begli occhi quella nebbia che fa nascer d'i miei continua pioggia, et nel bel petto l'indurato ghiaccio che trâ del mio sí dolorosi vènti. Ben debbo io perdonare a tutti vènti, per amor d'un che 'n mezzo di duo fiumi mi chiuse tra 'l bel verde e 'l dolce ghiaccio, tal ch'i' depinsi poi per mille valli l'ombra ov'io fui, ché né calor né pioggia né suon curava di spezzata nebbia. Ma non fuggío già mai nebbia per vènti, come quel dí, né mai fiumi per pioggia, né ghiaccio quando 'l sole apre le valli. |
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quando il
sole apre le valli |
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LXX (Canzone 7a) Lasso me, ch’ i’ non so in qual parte pieghi la speme, ch’ è tradita omai più volte: che se non è chi con pietà m’ascolte, perché sparger al ciel sí spessi preghi? Ma s’egli aven ch’anchor non mi si nieghi finir anzi ’l mio fine queste voci meschine, non gravi al mio signor perch’io il ripreghi di dir libero un dí tra l’erba e i fiori: "Drez et raison es qu’ieu ciant e ’m demori." Ragione è ben ch’alcuna volta io canti, però ch’ò sospirato sí gran tempo che mai non incomincio assai per tempo per adequar col riso i dolor’ tanti. Et s’io potesse far ch’agli occhi santi porgesse alcun dilecto qualche dolce mio detto, o me beato sopra gli altri amanti! Ma piú quand’io dirò senza mentire: "Donna mi priegha, per ch’io voglio dire." Vaghi pensier’ che cosí passo passo scorto m’avete a ragionar tant’alto, vedete che madonna à ’l cor di smalto, sí forte ch’io per me dentro nol passo. Ella non degna di mirar sí basso che di nostre parole curi, ché ’l ciel non vòle, al qual pur contrastando i’ son già lasso: onde, come nel cor m’induro e n’aspro, "Così nel mio parlar voglio esser aspro." Che parlo? o dove sono? e chi m’inganna, altri ch’io stesso e ’l desïar soverchio? Già s’i’trascorro il ciel di cerchio in cerchio, nessun pianeta a pianger mi condanna. Se mortal velo il mio veder appanna, che colpa è de le stelle, o de le cose belle? Meco si sta chi dí et notte m’affanna, poi che del suo piacer mi fe’ gir grave "La dolce vista e ’l bel guardo soave." Tutte le cose, di che ’l mondo è adorno uscïr buone de man del mastro eterno; ma me, che cosí adentro non discerno, abbaglia il bel che mi si mostra intorno; et s’al vero splendor già mai ritorno, l’occhio non po’ star fermo, cosí l’à fatto infermo pur la sua propria colpa, et non quel giorno ch’i’ volsi inver’ l’angelica beltade "Nel dolce tempo de la prima etade." Diese Canzone enthält fünf Zitate in den jeweils letzten Verszeilen, zwei von Minnesängern, eines von Dante, eines von Cino da Pistoia und in der letzten Zeile des Gedichtes ein Eigenzitat, aus dem Text XXIII. |
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Vaghi pensier’ che cosí
passo passo
scorto m’avete a ragionar
tant’alto
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LXXI (Canzone 8a) Perché la vita è breve, et l’ingegno paventa a l’alta impresa, né di lui né di lei molto mi fido; ma spero che sia intesa là dov’io bramo, et là dove esser deve, la doglia mia la qual tacendo i’ grido. Occhi leggiadri dove Amor fa nido, a voi rivolgo il mio debile stile, pigro da sé, ma ’l gran piacer lo sprona; et chi di voi ragiona tien dal soggetto un habito gentile, che con l’ale amorose levando il parte d’ogni pensier vile. Con queste alzato vengo a dir or cose ch’ò portate nel cor gran tempo ascose. Non perch’io non m’aveggia quanto mia laude è ’ngiurïosa a voi: ma contrastar non posso al gran desio, lo quale è ’n me da poi ch’i’ vidi quel che pensier non pareggia, non che l’avagli altrui parlar o mio. Principio del mio dolce stato rio, altri che voi so ben che non m’intende. Quando agli ardenti rai neve divegno, vostro gentile sdegno forse ch’allor mia indignitate offende. Oh, se questa temenza non temprasse l’arsura che m’incende, beato venir men! ché ’n lor presenza m’è più caro il morir che ’l viver senza. Dunque ch’i’ non mi sfaccia, sí frale obgetto a sí possente foco, non è proprio valor che me ne scampi; ma la paura un poco, che ’l sangue vago per le vene agghiaccia, risalda ’l cor, perché piú tempo avampi. O poggi, o valli, o fiumi, o selve, o campi, o testimon’ de la mia grave vita, quante volte m’udiste chiamar morte! Ahi dolorosa sorte lo star mi strugge, e ’l fuggir non m’aita. Ma se maggior paura non m’affrenasse, via corta et spedita trarrebbe a fin questa apra pena et dura; et la colpa è di tal che non à cura. Dolor perché mi meni fuor di camin a dir quel ch’i’ non voglio? Sostien ch’io vada ove ’l piacer mi spigne. Già di voi non mi doglio, occhi sopra ’l mortal corso sereni, né di lui ch’a tal nodo mi distrigne. Vedete ben quanti color’ depigne Amor sovente in mezzo del mio volto, et potrete pensar qual dentro fammi, là ’ve dí et notte stammi adosso, col poder ch’a in voi raccolto, luci beate et liete se non che ’l veder voi stesse v’è tolto; ma quante volte a me vi rivolgete, conoscete in altrui quel che voi siete. S’a voi fosse sí nota la divina incredibile bellezza di ch’io ragiono, come a chi la mira, misurata allegrezza non avria ’l cor: però forse è remota dal vigor natural che v’apre et gira. Felice l’alma che per voi sospira, lumi del ciel, per li quali io ringratio la vita che per altro non m’è a grado! Oimè, perché sí rado mi date quel dond’io mai non son satio? Perché non piú sovente mirate qual Amor di me fa stracio? E perché mi spogliate immantanente del ben ch’ad ora ad or l’anima sente? Dico ch’ad ora ad ora, vostra mercede, i’ sento in mezzo l’alma una dolcezza inusitata et nova, la qual ogni altra salma di noiosi pensier’ disgombra allora, sí che di mille un sol vi si ritrova: quel tanto a me, non piú, del viver giova. Et se questo mio ben durasse alquanto, nullo stato aguagliarse al mio porrebbe; ma forse altrui farrebbe invido, et me superbo l’onor tanto: però, lasso, convensi che l’extremo del riso assaglia il pianto, e ’nterrompendo quelli spirti accensi a me ritorni, et di me stesso pensi. L’amoroso pensero ch’alberga dentro, in voi mi si discopre tal che mi trâ del cor ogni altra gioia; onde parole et opre escon di me sí fatte allor ch’i’ spero farmi immortal, perché la carne moia. Fugge al vostro apparire angoscia et noia, et nel vostro partir tornano insieme. Ma perché la memoria innamorata chiude lor poi l’entrata, di là non vanno da le parti extreme; onde s’alcun bel frutto nasce di me, da voi vien prima il seme: io per me son quasi un terreno asciutto, cólto da voi, e ’l pregio è vostro in tutto. Canzon, tu non m’acqueti, anzi m’infiammi a dir di quel ch’a me stesso m’invola: però sia certa de non esser sola. |
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m’è più caro il morir che ’l viver senza | |
LXXII (Canzone 9a) Gentil mia donna, i' veggio nel mover de' vostr' occhi un dolce lume che mi mostra la via ch'al ciel conduce; et per lungo costume, dentro là dove sol con Amor seggio, quasi visibilmente il cor traluce. Questa è la vista ch'a ben far m'induce, et che mi scorge al glorïoso fine; questa sola dal vulgo m'allontana: né già mai lingua humana contar poria quel che le due divine luci sentir mi fanno, e quando 'l verno sparge le pruine, et quando poi ringiovenisce l'anno qual era al tempo del mio primo affanno. Io penso: se là suso, onde 'l Motor eterno de le stelle degnò mostrar del suo lavoro in terra, son l'altr' opre sí belle, aprasi la pregione, ov'io son chiuso, et che 'l camino a tal vita mi serra. Poi mi rivolgo a la mia usata guerra, ringratiando Natura e 'l dí ch'io nacqui che reservato m'ànno a tanto bene, et lei ch'a tanta spene alzò il mio cor: ché 'nsin allor io giacqui a me noioso et grave, da quel dí inanzi a me medesmo piacqui, empiendo d'un pensier alto et soave quel core ond'ànno i begli occhi la chiave. Né mai stato gioioso Amor o la volubile Fortuna dieder a chi piú fur nel mondo amici, ch'i' nol cangiassi ad una rivolta d'occhi, ond'ogni mio riposo vien come ogni arbor vien da sue radici. Vaghe faville, angeliche, beatrici de la mia vita, ove 'l piacer s'accende che dolcemente mi consuma et strugge: come sparisce et fugge ogni altro lume dove'l vostro splende, cosí de lo mio core, quando tanta dolcezza in lui discende, ogni altra cosa, ogni penser va fore, et solo ivi con voi rimanse Amore. Quanta dolcezza unquancho fu in cor d'aventurosi amanti, accolta tutta in un loco, a quel ch'i' sento è nulla, quando voi alcuna volta soavemente tra 'l bel nero e 'l biancho volgete il lume in cui Amor si trastulla; et credo da le fasce et da la culla al mio imperfecto, a la Fortuna adversa questo rimedio provedesse il cielo. Torto mi face il velo et la man che sí spesso s'atraversa fra 'l mio sommo dilecto et gli occhi, onde dí et notte si rinversa il gran desio per isfogare il petto, che forma tien dal varïato aspetto. Perch'io veggio, et mi spiace, che natural mia dote a me non vale né mi fa degno d'un sí caro sguardo, sforzomi d'esser tale qual a l'alta speranza si conface, et al foco gentil ond'io tutto ardo. S'al ben veloce, et al contrario tardo, dispregiator di quanto 'l mondo brama per solicito studio posso farme, porrebbe forse aitarme nel benigno iudicio una tal fama: Certo il fin de' miei pianti, che non altronde il cor doglioso chiama, vèn da' begli occhi alfin dolce tremanti, ultima speme de' cortesi amanti. Canzon, l'una sorella è poco inanzi, et l'altra sento in quel medesmo albergo apparechiarsi; ond'io piú carta vergo. |
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aprasi la pregione, ov'io son chiuso | |
LXXIII (Canzone 10a) Poi che per mio destino a dir mi sforza quell’accesa voglia che m’à sforzato a sospirar mai sempre, Amor, ch’a ciò m’invoglia, sia la mia scorta, e ’nsignimi ’l camino, et col desio le mie rime contempre: ma non in guisa che lo cor si stempre di soverchia dolcezza, com’io temo, per quel ch’i’ sento ov’occhio altrui non giugne; ché ’l dir m’infiamma et pugne, né per mi’ ’ngegno, ond’io pavento et tremo, sí come talor sòle, trovo ’l gran foco de la mente scemo, anzi mi struggo al suon de le parole, pur com’io fusse un huom di ghiaccio al sole. Nel cominciar credia trovar parlando al mio ardente desire qualche breve riposo et qualche triegua. Questa speranza ardire mi porse a ragionar quel ch’i’sentia: or m’abbandona al tempo, et si dilegua. Ma pur conven che l’alta impresa segua continüando l’amorose note, sí possente è ’l voler che mi trasporta; et la ragione è morta, che tenea ’l freno, et contrastar nol pote. Mostrimi almen ch’io dica Amor in guisa che, se mai percote gli orecchi de la dolce mia nemica, non mia, ma di pietà la faccia amica. Dico: se ’n quella etate ch’al vero honor fur gli animi sí accesi, l’industria d’alquanti huomini s’avolse per diversi paesi, poggi et onde passando, et l’onorate cose cercando, e ’l più bel fior ne colse, poi che Dio et Natura et Amor volse locar compitamente ogni virtute in quei be’ lumi, ond’io gioioso vivo, questo et quell’altro rivo non conven ch’i’ trapasse, et terra mute. A lor sempre ricorro come a fontana d’ogni mia salute, et quando a morte disïando corro, sol di lor vista al mio stato soccorro. Come a forza di vènti stanco nocchier di notte alza la testa a’ duo lumi ch’a sempre il nostro polo, cosí ne la tempesta ch’i’ sostengo d’Amor, gli occhi lucenti sono il mio segno e ’l mio conforto solo. Lasso, ma troppo è piú quel ch’io ne ’nvolo or quinci or quindi, come Amor m’informa, che quel che vèn da gratïoso dono; et quel poco ch’i’ sono mi fa di loro una perpetua norma. Poi ch’io li vidi in prima, senza lor a ben far non mossi un’orma: cosí gli ò di me posti in su la cima, che ’l mio valor per sé falso s’estima. I’ non poria già mai imaginar, nonché narrar gli effecti, che nel mio cor gli occhi soavi fanno: tutti gli altri diletti di questa vita ò per minori assai, et tutte altre bellezze indietro vanno. Pace tranquilla senza alcuno affanno: simile a quella ch’è nel ciel eterna, move da lor inamorato riso. Cosí vedess’io fiso come Amor dolcemente gli governa, sol un giorno da presso senza volger già mai rota superna, né pensasse d’altrui né di me stesso, e ’l batter gli occhi miei non fosse spesso. Lasso, che disïando vo quel ch’esser non puote in alcun modo, et vivo del desir fuor di speranza: solamente quel nodo ch’Amor cerconda a la mia lingua quando l’umana vista il troppo lume avanza, fosse disciolto, i’ prenderei baldanza di dir parole in quel punto sí nove che farian lagrimar chi le ’ntendesse; ma le ferite impresse volgon per forza il cor piagato altrove, ond’io divento smorto, e ’l sangue si nasconde, i’ non so dove, né rimango qual era; et sonmi accorto che questo è ’l colpo di che Amor m’à morto. Canzone, i’ sento già stancar la penna del lungo et dolce ragionar co lei, ma non di parlar meco i pensier’ mei. |
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Canzone, i’ sento già stancar la penna | |
LXXX (Sestina 4a) Chi è fermato di menar sua vita su per l’onde fallaci et per gli scogli scevro da morte con un picciol legno, non pò molto lontan esser dal fine: però sarrebbe da ritrarsi in porto mentre al governo anchor crede la vela. L’aura soave a cui governo et vela commisi entrando a l’amorosa vita et sperando venire a miglior porto, poi mi condusse in piú di mille scogli; et le cagion’ del mio doglioso fine non pur d’intorno avea, ma dentro al legno. Chiuso gran tempo in questo cieco legno errai, senza levar occhio a la vela ch’anzi al mio dí mi trasportava al fine; poi piacque a lui che mi produsse in vita chiamarme tanto indietro da li scogli ch’almen da lunge m’apparisse il porto. Come lume di notte in alcun porto vide mai d’alto mar nave né legno se non gliel tolse o tempestate o scogli, cosí di su da la gomfiata vela vid’io le ’nsegne di quell’altra vita, et allor sospirai verso ’l mio fine. Non perch’io sia securo anchor del fine: ché volendo col giorno esser a porto è gran vïaggio in cosí poca vita; poi temo, ché mi veggio in fraile legno, et piú che non vorrei piena la vela del vento che mi pinse in questi scogli. S’io esca vivo de’ dubbiosi scogli, et arrive il mio exilio ad un bel fine, ch’i’ sarei vago di voltar la vela, et l’anchore gittar in qualche porto! Se non ch’i’ ardo come acceso legno, sí m’è duro a lassar l’usata vita. Signor de la mia fine et de la vita, prima ch’i’ fiacchi il legno tra gli scogli drizza a buon porto l’affannata vela. |
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Chi è fermato di menar sua vita | |
CV (Canzone 11a) Mai non vo’ piú cantar com’io soleva, ch’altri no m’intendeva, ond’ebbi scorno; et puossi in bel soggiorno esser molesto. Il sempre sospirar nulla releva; già su per l’Alpi neva d’ogn’ ’ntorno; et è già presso al giorno: ond’io son desto. Un acto dolce honesto è gentil cosa; et in donna amorosa anchor m’aggrada, che ’n vista vada altera et disdegnosa, non superba et ritrosa: Amor regge suo imperio senza spada. Chi smarrita à la strada, torni indietro; chi non à albergo, posisi in sul verde; chi non à l’auro, o ’l perde, spenga la sete sua con un bel vetro. I’die’ in guarda a san Pietro; or non piú, no: intendami chi pò, ch’i’ m’intend’io. Grave soma è un mal fio a mantenerlo: quando posso mi spetro, et sol mi sto. Fetonte odo che ’n Po cadde, et morío; et già di là dal rio passato è ’l merlo: deh, venite a vederlo. Or i’ non voglio: non è gioco uno scoglio in mezzo l’onde, e ’ntra le fronde il visco. Assai mi doglio quando un soverchio orgoglio molte vertuti in bella donna asconde. Alcun è che risponde a chi nol chiama; altri, chi ’il prega, si delegua et fugge; altri al ghiaccio si strugge; altri dí et notte la sua morte brama. Proverbio "ama chi t’ama" è fatto antico. I’ so ben quel ch’io dico: or lass’andare, ché conven ch’altri impare a le sue spese. Un’ humil donna grama un dolce amico. Mal si conosce il fico. A me pur pare senno a non cominciar tropp’alte imprese; et per ogni paese è bona stanza. L’infinita speranza occide altrui; et anch’io fui alcuna volta in danza. Quel poco che m’avanza fia chi nol schifi, s’i’ ’l vo’ dare a lui. I’ mi fido in Colui che ’l mondo regge, et che’ seguaci Suoi nel boscho alberga, che con pietosa verga mi meni a passo omai tra le Sue gregge. Forse ch’ogni uom che legge non s’intende; et la rete tal tende che non piglia; et chi troppo assotiglia si scavezza. Non fia zoppa la legge ov’altri attende. Per bene star si scende molte miglia. Tal par gran meraviglia, et poi si sprezza. Una chiusa bellezza è piú soave. Benedetta la chiave che s’avvolse al cor, et sciolse l’alma, et scossa l’ave di catena sí grave, e ’nfiniti sospir’ del mio sen tolse! Là dove piú mi dolse, altri si dole, et dolendo adolcisse il mio dolore: ond’io ringratio Amore che piú nol sento, et è non men che suole. In silentio parole accorte et sagge, e ’l suon che mi sottragge ogni altra cura, et la pregione oscura ov’è ’l bel lume; le nocturne vïole per le piagge, et le le fere selvagge entr’a le mura, et la dolce paura, e ’l bel costume, et di duo fonti un fiume in pace vòlto dov’io bramo, et raccolto ove che sia: Amor et Gelosia m’ànno il cor tolto, e i segni del bel volto che mi conducon per piú piana via a la speranza mia, al fin degli affanni. O riposto mio bene, et quel che segue, or pace or guerra or triegue, mai non m’abbandonate in questi panni. De’ passati miei danni piango et rido, perché molto mi fido in quel ch’i’ odo. Del presente mi godo, et meglio aspetto, et vo contando gli anni, et taccio et grido. E ’n bel ramo m’annido, et in tal modo ch’i’ ne ringratio et lodo il gran disdetto che l’indurato affecto alfine à vinto, et ne l’alma depinto "I sare’ udito, et mostratone a dito", et ànne extinto (tanto inanzi son pinto, ch’i’ ’l pur dirò) "Non fostú tant’ardito": chi m’à ’l fianco ferito, et chi ’l risalda, per cui nel cor via piú che ’n carta scrivo; chi mi fa morto et vivo, chi ’n un punto m’agghiaccia et mi riscalda. |
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De’ passati miei danni piango et rido | |
CVI (Madrigale 3o) Nova angeletta sovra l’ale accorta scese dal cielo in su la fresca riva, là ’nd’io passava sol per mio destino. Poi che senza compagna et senza scorta mi vide, un laccio che di seta ordiva tese fra l’erba, ond’è verde il camino. Allor fui preso; et non mi spiacque poi, sí dolce lume uscia degli occhi suoi. |
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Nova angeletta sovra l’ale accorta | |
CXIX (Canzone 12a) Una donna piú bella assai che ’l sole, et piú lucente, et d’altrettanta etade, con famosa beltade, acerbo anchor mi trasse a la sua schiera. Questa in penseri, in opre et in parole (però ch’è de le cose al mondo rade), questa per mille strade sempre inanzi mi fu leggiadra altera. Solo per lei tornai da quel ch’i’ era, poi ch’i’ soffersi gli occhi suoi da presso; per suo amor m’er’io messo a faticosa impresa assai per tempo: tal che, s’i’arrivo al disïato porto, spero per lei gran tempo viver, quand’altri mi terrà per morto. Questa mia donna mi menò molt’anni pien di vaghezza giovenile ardendo, sí come ora io comprendo, sol per aver di me piú certa prova, mostrandomi pur l’ombra o ’l velo o’ panni talor di sé, ma ’l viso nascondendo; et io, lasso, credendo vederne assai, tutta l’età mia nova passai contento, e ’l rimembrar mi giova, poi ch’alquanto di lei veggi’or piú inanzi. I’dico che pur dianzi qual io non l’avea vista infin allora, mi si scoverse: onde mi nacque un ghiaccio nel core, et èvvi anchora, et sarà sempre fin ch’i’ le sia in braccio. Ma non me ’l tolse la paura o ’l gielo che pur tanta baldanza al mio cor diedi ch’i’ le mi strinsi a’ piedi per piú dolcezza trar de gli occhi suoi; et ella, che remosso avea già il velo dinanzi a’ miei, mi disse: - Amico, or vedi com’io son bella, et chiedi quanto par si convenga agli anni tuoi. - - Madonna - dissi - già gran tempo in voi posi ’l mio amor, ch’i’ sento or sí infiammato, ond’a me in questo stato altro volere o disvoler m’è tolto. - Con voce allor di sí mirabil’ tempre rispose, et con un volto che temer et sperar mi farà sempre: - Rado fu al mondo fra cosí gran turba ch’udendo ragionar del mio valore non si sentisse al core per breve tempo almen qualche favilla; ma l’adversaria mia che ’l ben perturba tosto la spegne, ond’ogni vertú more et regna altro signore che promette una vita piú tranquilla. De la tua mente Amor, che prima aprilla, mi dice cose veramente ond’io veggio che ’l gran desio pur d’onorato fin ti farà degno; et come già se’ de’ miei rari amici, donna vedrai per segno che farà gli occhi tuoi via piú felici. - I’ volea dir: - Quest’è impossibil cosa -; quand’ella: - Or mira - et leva’ gli occhi un poco in piú riposto loco - donna ch’a pochi si mostrò già mai. - Ratto inchinai la fronte vergognosa, sentendo novo dentro maggior foco; et ella il prese in gioco, dicendo: - I’ veggio ben dove tu stai. Sí come ’l sol con suoi possenti rai fa súbito sparire ogni altra stella, cosí par or men bella la vista mia cui maggiore luce preme. Ma io però da’ miei non ti diparto, ché questa et me d’un seme, lei davanti et me poi, produsse un parto. - Ruppesi intanto di vergogna il nodo ch’a la mia lingua era distretto intorno su nel primiero scorno, allor quand’io del suo accorger m’accorsi; e ’ncominciai: - S’egli è ver quel ch’i’ odo, beato il padre, et benedetto il giorno ch’à di voi il mondo adorno, et tutto ’l tempo ch’a vedervi io corsi; et se mai da la via dritta mi torsi, duolmene forte, assai piú ch’i’ non mostro; ma se de l’esser vostro fossi degno udir piú, del desir ardo. - Pensosa mi rispose, et cosí fiso tenne il suo dolce sguardo ch’al cor mandò co le parole il viso: - Sí come piacque al nostro eterno padre, ciascuna di noi due nacque immortale. Miseri, a voi che vale? Me’ v’era che da noi fosse il defecto. Amate, belle, gioveni et leggiadre fummo alcun tempo: et or siam giunte a tale che costei batte l’ale per tornar a l’anticho suo ricetto; i’ per me sono un’ombra. Et or t’ò detto quanto per te sí breve intender puossi. - Poi che i pie’ suoi fur mossi, dicendo: - Non temer ch’i’ m’allontani -, di verde lauro una ghirlanda colse, la qual co le sue mani intorno intorno a le mie tempie avolse. Canzon, chi tua ragion chiamasse obscura, di’: - Non ò cura, perché tosto spero ch’altro messaggio il vero farà in piú chiara voce manifesto. I’ venni sol per isvegliare altrui, se chi m’impose questo non m’inganò, quand’io partí’ da lui. - |
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viver, quand’altri mi terrà per morto | |
CXXI (Madrigale 4o) Or vedi, Amor, che giovenetta donna tuo regno sprezza, et del mio mal non cura, et tra duo ta’ nemici è sí secura. Tu se’ armato, et ella in treccie e ’n gonna si siede, et scalza, in mezzo i fiori et l’erba, ver’ me spietata, e ’n contra te superba. I’ son pregion; ma se pietà anchor serba l’arco tuo saldo, et qualchuna saetta, fa di te et di me, signor, vendetta. |
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fa di te et di me, signor, vendetta | |
CXXV (Canzone 13a) Se ’l pensier che mi strugge, com’è pungente et saldo, cosí vestisse d’un color conforme, forse tal m’arde et fugge, ch’avria parte del caldo, et desteriasi Amor là dov’or dorme; men solitarie l’orme fôran de’ miei pie’ lassi per campagne et per colli, men gli occhi ad ognor molli, ardendo lei che come un ghiaccio stassi, et non lascia in me dramma che non sia foco et fiamma. Però ch’Amor mi sforza et di saver mi spoglia, parlo in rime aspre, et di dolcezza ignude: ma non sempre a la scorza ramo, né in fior, né ’n foglia mostra di for sua natural vertude. Miri ciò che ’l cor chiude Amor et que’ begli occhi, ove si siede a l’ombra. Se ’l dolor che si sgombra aven che ’n pianto o in lamentar trabocchi, l’un a me nòce et l’altro altrui, ch’io non lo scaltro. Dolci rime leggiadre che nel primiero assalto d’Amor usai, quand’io non ebbi altr’arme, chi verrà mai che squadre questo mio cor di smalto ch’almen com’io solea possa sfogarme? Ch’aver dentro a lui parme un che madonna sempre depinge et de lei parla: a voler poi ritrarla per me non basto, et par ch’io me ne stempre. Lasso, cosí m’è scorso lo mio dolce soccorso. Come fanciul ch’a pena volge la lingua et snoda, che dir non sa, ma ’l piú tacer gli è noia, così ’l desir mi mena a dire, et vo’ che m’oda la dolce mia nemica anzi ch’io moia. Se forse ogni sua gioia nel suo bel viso è solo, et di tutt’altro è schiva, odil tu, verde riva, e presta a’ miei sospir’ sí largo volo, che sempre si ridica come tu m’eri amica. Ben sai che sí bel piede non tocchò terra unquancho come quel dí che già segnata fosti; onde ’l cor lasso riede col tormentoso fiancho a partir teco i lor pensier’ nascosti. Cosí avestú riposti de’ be’ vestigi sparsi anchor tra’ fiori et l’erba, che la mia vita acerba, lagrimando, trovasse ove acquetarsi! Ma come pò s’appaga l’alma dubbiosa et vaga. Ovunque gli occhi volgo trovo un dolce sereno pensando: Qui percosse il vago lume. Qualunque herba o fior colgo credo che nel terreno aggia radice, ov’ella ebbe in costume gir fra le piagge e ’l fiume, et talor farsi un seggio fresco, fiorito et verde. Cosí nulla se ’n perde, et piú certezza averne fôra il peggio. Spirto beato, quale se’, quando altrui fai tale? O poverella mia, come se’ rozza! Credo che te 'l conoschi: rimanti in questi boschi. |
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Ovunque gli occhi volgo | |
CXXVI (Canzone 14a) Chiare, fresche et dolci acque, ove le belle membra pose colei che sola a me par donna; gentil ramo ove piacque (con sospir’ mi rimembra) a lei di fare al bel fiancho colonna; herba et fior’ che la gonna leggiadra ricoverse co l’angelico seno; aere sacro, sereno, ove Amor co’ begli occhi il cor m’aperse: date udïenza insieme a le dolenti mie parole extreme. S’egli è pur mio destino e ’l cielo in ciò s’adopra, ch’Amor quest’occhi lagrimando chiuda, qualche gratia il meschino corpo fra voi ricopra, et torni l’alma al proprio albergo ignuda. La morte fia men cruda se questa spene porto a quel dubbioso passo: ché lo spirito lasso non poria mai in piú riposato porto né in piú tranquilla fossa fuggir la carne travagliata et l’ossa. Tempo verrà anchor forse ch’a l’usato soggiorno torni la fera bella et mansüeta, et là ’v’ella mi scorse nel benedetto giorno, volga la vista disïosa et lieta, cercandomi; et, o pietà!, già terra in fra le pietre vedendo, Amor l’inspiri in guisa che sospiri sí dolcemente che mercé m’impetre, et faccia forza al cielo, asciugandosi gli occhi col bel velo. Da’ be’ rami scendea (dolce ne la memoria) una pioggia di fior’ sovra ’l suo grembo; et ella si sedea humile in tanta gloria, coverta già de l’amoroso nembo. Qual fior cadea sul lembo, qual su le treccie bionde, ch’oro forbito et perle eran quel dí a vederle; qual si posava in terra, et qual su l’onde; qual con un vago errore girando parea dir: Qui regna Amore. Quante volte diss’io allor pien di spavento: Costei per fermo nacque in paradiso. Cosí carco d’oblio il divin portamento e ’l volto e le parole e ’l dolce riso m’aveano, et sí diviso da l’imagine vera, ch’i’ dicea sospirando: Qui come venn’io, o quando?; credendo esser in ciel, non là dov’era. Da indi in qua mi piace questa herba sí, ch’altrove non ò pace. Se tu avessi ornamenti quant’ài voglia, poresti arditamente uscir del boscho, et gir in fra la gente. |
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Chiare, fresche et dolci acque | |
CXXVII (Canzone 15a) In quella parte dove Amor mi sprona conven ch’io volga le dogliose rime, che son seguaci de la mente afflicta. Quai fien ultime, lasso, et qua’ fien prime? Collui che del mio mal meco ragiona mi lascia in dubbio, sí confuso ditta. Ma pur quanto l’istoria trovo scripta in mezzo ’l cor (che sí spesso rincorro) co la sua propria man de’ miei martiri, dirò, perché i sospiri parlando àn triegua, et al dolor soccorro. Dico che, perch’io miri mille cose diverse attento et fiso, sol una donna veggio, e ’l suo bel viso. Poi che la dispietata mia ventura m’à dilungato dal maggior mio bene, noiosa, inexorabile et superba, Amor col rimembrar sol mi mantene: onde s’io veggio in giovenil figura incominciarsi il mondo a vestir d’erba, parmi vedere in quella etate acerba la bella giovenetta, ch’ora è donna; poi che sormonta riscaldando il sole, parmi qual esser sòle, fiamma d’amor che ’n cor alto s’endonna; ma quando il dí si dole di lui che passo passo a dietro torni, veggio lei giunta a’ suoi perfecti giorni. In ramo fronde, over vïole in terra, mirando a la stagion che ’l freddo perde, et le stelle miglior’ acquistan forza, ne gli occhi ò pur le vïolette e ’l verde di ch’era nel principio de mia guerra Amor armato, sí ch’anchor mi sforza, et quella dolce leggiadretta scorza che ricopria le pargolette membra dove oggi alberga l’anima gentile ch’ogni altro piacer vile sembiar mi fa: sí forte mi rimembra del portamento humile ch’allor fioriva, et poi crebbe anzi agli anni, cagion sola et riposo de’ miei affanni. Qualor tenera neve per li colli dal sol percossa veggio di lontano, come ’l sol neve, mi governa Amore, pensando nel bel viso piú che humano che pò da lunge gli occhi miei far molli, ma da presso gli abbaglia, et vince il core: ove fra ’l biancho et l’aurëo colore, sempre si mostra quel che mai non vide occhio mortal, ch’io creda, altro che ’l mio; et del caldo desio, che, quando sospirando ella sorride, m’infiamma sí che oblio nïente aprezza, ma diventa eterno, né state il cangia, né lo spegne il verno. Non vidi mai dopo nocturna pioggia gir per l’aere sereno stelle erranti, et fiammeggiar fra la rugiada e ’l gielo, ch’i’ non avesse i begli occhi davanti ove la stancha mia vita s’appoggia, quali io gli vidi a l’ombra di un bel velo; et sí come di lor bellezze il cielo splendea quel dí, così bagnati anchora li veggio sfavillare, ond’io sempre ardo. Se ’l sol levarsi sguardo, sento il lume apparir che m’innamora; se tramontarsi al tardo, parmel veder quando si volge altrove lassando tenebroso onde si move. Se mai candide rose con vermiglie in vasel d’oro vider gli occhi miei allor allor da vergine man colte, veder pensaro il viso di colei ch’avanza tutte l’altre meraviglie con tre belle excellentie in lui raccolte: le bionde treccie sopra ’l collo sciolte, ov’ogni lacte perderia sua prova, e le guancie ch’adorna un dolce foco. Ma pur che l’òra un poco fior’ bianchi et gialli per le piaggie mova, torna a la mente il loco e ’l primo dí ch’i’ vidi a l’aura sparsi i capei d’oro, ond’io sí súbito arsi, Ad una ad una annoverar le stelle, e ’n picciol vetro chiuder tutte l’acque, forse credea, quando in sí poca carta novo penser di ricontar mi nacque in quante parti il fior de l’altre belle, stando in se stessa, à la sua luce sparta a ciò che mai da lei non mi diparta: né farò io; et se pur talor fuggo, in cielo e’n terra m’ha rachiuso i passi, perch’agli occhi miei lassi sempre è presente, ond’io tutto mi struggo. Et cosí meco stassi, ch’altra non veggio mai, né veder bramo, né ’l nome d’altra né sospir’ miei chiamo. Ben sai, canzon, che quant’io parlo è nulla al celato amoroso mio pensero, che dí et nocte ne la mente porto, solo per cui conforto in cosí lunga guerra ancho non pèro: ché ben m’avria già morto la lontananza del mio cor piangendo, ma quinci da la morte indugio prendo. |
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ma quinci da la morte indugio prendo | |
CXXVIII (Canzone 16a) Italia mia, benché ’l parlar sia indarno a le piaghe mortali che nel bel corpo tuo sí spesse veggio, piacemi almen che ’ miei sospir’ sian quali spera ’l Tevero et l’Arno, e ’l Po, dove doglioso et grave or seggio. Rettor del cielo, io cheggio che la pietà che Ti condusse in terra Ti volga al Tuo dilecto almo paese. Vedi, Segnor cortese, di che lievi cagion’ che crudel guerra; e i cor’, che ’ndura et serra Marte superbo et fero, apri Tu, Padre, e ’ntenerisci et snoda; ivi fa che ’l Tuo vero, qual io mi sia, per la mia lingua s’oda. Voi cui Fortuna à posto in mano il freno de le belle contrade, di che nulla pietà par che vi stringa, che fan qui tante pellegrine spade? perché ’l verde terreno del barbarico sangue si depinga? Vano error vi lusinga: poco vedete, et parvi veder molto, ché ’n cor venale amor cercate o fede. Qual piú gente possede, colui è piú da’ suoi nemici avolto. O diluvio raccolto di che deserti strani per inondar i nostri dolci campi! Se da le proprie mani questo n’avene, or chi fia che ne scampi? Ben provide Natura al nostro stato, quando de l’Alpi schermo pose fra noi et la tedesca rabbia; ma ’l desir cieco, e ’ncontr’al suo ben fermo, s’è poi tanto ingegnato, ch’al corpo sano à procurato scabbia. Or dentro ad una gabbia fiere selvagge et mansüete gregge s’annidan sí che sempre il miglior geme: et è questo del seme, per piú dolor, del popol senza legge, al qual, come si legge, Mario aperse sí ’l fianco, che memoria de l’opra ancho non langue, quando assetato et stanco non piú bevve del fiume acqua che sangue. Cesare taccio che per ogni piaggia fece l’erbe sanguigne di lor vene, ove ’l nostro ferro mise. Or par, non so per che stelle maligne, che ’l cielo in odio n’aggia: vostra mercé, cui tanto si commise. Vostre voglie divise guastan del mondo la piú bella parte. Qual colpa, qual giudicio o qual destino fastidire il vicino povero, et le fortune afflicte et sparte perseguire, e ’n disparte cercar gente et gradire, che sparga ’l sangue et venda l’alma a prezzo? Io parlo per ver dire, non per odio d’altrui, né per disprezzo. Né v’accorgete anchor per tante prove del bavarico inganno ch’alzando il dito colla morte scherza? Peggio è lo strazio, al mio parer, che ’l danno; ma ’l vostro sangue piove piú largamente, ch’altr’ira vi sferza. Da la matina a terza di voi pensate, et vederete come tien caro altrui che tien sé cosí vile. Latin sangue gentile, sgombra da te queste dannose some; non far idolo un nome vano senza soggetto: ché ’l furor de lassú, gente ritrosa, vincerne d’intellecto, peccato è nostro, et non natural cosa. Non è questo ’l terren ch’i’ toccai pria? Non è questo il mio nido ove nudrito fui sí dolcemente? Non è questa la patria in ch’io mi fido, madre benigna et pia, che copre l’un et l’altro mio parente? Perdio, questo la mente talor vi mova, et con pietà guardate le lagrime del popol doloroso, che sol da voi riposo dopo Dio spera; et pur che voi mostriate segno alcun di pietate, vertú contra furore prenderà l’arme, et fia ’l combatter corto: ché l’antiquo valore ne gli italici cor’ non è anchor morto. Signor’, mirate come ’l tempo vola, et sí come la vita fugge, et la morte n’è sovra le spalle. Voi siete or qui; pensate a la partita: ché l’alma ignuda et sola conven ch’arrive a quel dubbioso calle. Al passar questa valle piacciavi porre giú l’odio et lo sdegno, vènti contrari a la vita serena; et quel che ’n altrui pena tempo si spende, in qualche acto piú degno o di mano o d’ingegno, in qualche bella lode, in qualche honesto studio si converta: cosí qua giú si gode, et la strada del ciel si trova aperta. Canzone, io t’ammonisco che tua ragion cortesemente dica, perché fra gente altera ir ti convene, et le voglie son piene già de l’usanza pessima et antica, del ver sempre nemica. Proverai tua ventura fra’ magnanimi pochi a chi ’l ben piace. Di’ lor: - Chi m’assicura? I’ vo gridando: Pace, pace, pace. - |
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I’ vo gridando: Pace, pace, pace. | |
CXXIX (Canzone 17a) Di pensier in pensier, di monte in monte mi guida Amor, ch’ogni segnato calle provo contrario a la tranquilla vita. Se ’n solitaria piaggia, rivo, o fonte, se ’nfra duo poggi siede ombrosa valle, ivi s’acqueta l’alma sbigottita; e come Amor l’envita, or ride, or piange, or teme, or s’assecura; e ’l volto che lei segue ov’ella il mena si turba et rasserena, et in un esser picciol tempo dura; onde a la vista huom di tal vita experto diria: Questo arde, et di suo stato è incerto. Per alti monti et per selve aspre trovo qualche riposo: ogni habitato loco è nemico mortal degli occhi miei. A ciascun passo nasce un penser novo de la mia donna, che sovente in gioco gira ’l tormento ch’i’ porto per lei; et a pena vorrei cangiar questo mio viver dolce amaro, ch’i’ dico: Forse anchor ti serva Amore ad un tempo migliore; forse, a te stesso vile, altrui se’ caro. Et in questa trapasso sospirando: Or porrebbe esser vero? or come? or quando? Ove porge ombra un pino alto od un colle talor m’arresto, e pur nel primo sasso disegno co la mente il suo bel viso. Poi ch’a me torno, trovo il petto molle de la pietate; et alor dico: Ahi, lasso, dove se’ giunto! ed onde se’ diviso! Ma mentre tener fiso posso al primo pensier la mente vaga, et mirar lei, ed oblïar me stesso, sento Amor sí da presso, che del suo proprio error l’alma s’appaga: in tante parti et sí bella la veggio, che se l’error durasse, altro non cheggio. I’ l’ò piú volte (or chi fia che mi ’l creda?) ne l’acqua chiara et sopra l’erba verde veduto viva, et nel tronchon d’un faggio e ’n bianca nube, sí fatta che Leda avria ben detto che sua figlia perde, come stella che ’l sol copre col raggio; et quanto in piú selvaggio loco mi trovo e ’n piú deserto lido, tanto piú bella il mio pensier l’adombra. Poi quando il vero sgombra quel dolce error, pur lí medesmo assido me freddo, pietra morta in pietra viva, in guisa d’uom che pensi et pianga et scriva. Ove d’altra montagna ombra non tocchi, verso ’l maggiore e ’l piú expedito giogo tirar mi suol un desiderio intenso; indi i miei danni a misurar con gli occhi comincio, e ’ntanto lagrimando sfogo di dolorosa nebbia il cor condenso, alor ch’i’ miro et penso, quanta aria dal bel viso mi diparte che sempre m’è sí presso et sí lontano. Poscia fra me pian piano: Che sai tu, lasso? forse in quella parte or di tua lontananza si sospira. Et in questo penser l’alma respira. Canzone, oltra quell’alpe là dove il ciel è piú sereno et lieto mi rivedrai sovr’un ruscel corrente, ove l’aura si sente d’un fresco et odorifero laureto. Ivi è ’l mio cor, et quella che ’l m’invola; qui veder pôi l’imagine mia sola. |
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Di pensier in pensier, di
monte in monte
mi guida Amor
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CXXXV (Canzone 18a) Qual piú diversa et nova cosa fu mai in qual che stranio clima, quella, se ben s’estima, piú mi rasembra: a tal son giunto, Amore. Là onde il dí vèn fore, vola un augel che sol senza consorte di volontaria morte rinasce, et tutto a viver si rinova. Cosí sol si ritrova lo mio voler, et cosí in su la cima de’ suoi alti pensieri al sol si volve, et cosí si risolve, et cosí torna al suo stato di prima: arde, et more, et riprende i nervi suoi, et vive poi con la fenice a prova. Una petra è sí ardita là per l’indico mar, che da natura tragge a sé il ferro e ’l fura dal legno, in guisa che ’ navigi affonde. Questo prov’io fra l’onde d’amaro pianto, ché quel bello scoglio à col suo duro argoglio condutta ove affondar conven mia vita: cosí l’alm’à sfornita (furando ’l cor che fu già cosa dura, et me tenne un, ch’or son diviso et sparso) un sasso a trar piú scarso carne che ferro. O cruda mia ventura, che ’n carne essendo, veggio trarmi a riva ad una viva dolce calamita! Né l’extremo occidente una fera è soave et queta tanto che nulla piú, ma pianto et doglia et morte dentro agli occhi porta: molto convene accorta esser qual vista mai ver’ lei si giri; pur che gli occhi non miri, l’altro puossi veder securamente. Ma io incauto, dolente, corro sempre al mio male, et so ben quanto n’ò sofferto, et n’aspetto; ma l’engordo voler ch’è cieco et sordo sí mi trasporta, che ’l bel viso santo et gli occhi vaghi fien cagion ch’io pèra, di questa fera angelica innocente. Surge nel mezzo giorno una fontana, e tien nome dal sole, che per natura sòle bollir le notti, e ’n sul giorno esser fredda; e tanto si raffredda quanto ’l sol monta, et quanto è piú da presso. Cosí aven a me stesso, che son fonte di lagrime et soggiorno: quando ’l bel lume adorno ch’è ’l mio sol s’allontana, et triste et sole son le mie luci, et notte oscura è loro, ardo allor; ma se l’oro e i rai veggio apparir del vivo sole, tutto dentro et di for sento cangiarme, et ghiaccio farme, cosí freddo torno. Un’altra fonte à Epiro, di cui si scrive ch’essendo fredda ella, ogni spenta facella accende, et spegne qual trovasse accesa. L’anima mia, ch’offesa anchor non era d’amoroso foco, appressandosi un poco a quella fredda, ch’io sempre sospiro, arse tutta: et martiro simil già mai né sol vide, né stella, ch’un cor di marmo a pietà mosso avrebbe; poi che ’nfiammata l’ebbe, rispensela vertú gelata et bella. Cosí piú volte à ’l cor racceso et spento: i’ ’l so che ’l sento, et spesso me ’nadiro. Fuor tutti nostri lidi, ne l’isole famose di Fortuna, due fonti à: chi de l’una bee, mor ridendo; et chi de l’altra, scampa. Simil fortuna stampa mia vita, che morir poria ridendo, del gran piacer ch’io prendo, se nol temprassen dolorosi stridi. Amor, ch’anchor mi guidi pur a l’ombra di fama occulta et bruna, tacerem questa fonte, ch’ognor piena, ma con piú larga vena veggiam, quando col Tauro il sol s’aduna: cosí gli occhi miei piangon d’ogni tempo, ma piú nel tempo che madonna vidi. Chi spïasse, canzone quel ch’i’ fo, tu pôi dir: Sotto un gran sasso in una chiusa valle, ond’esce Sorga, si sta; né chi lo scorga v’è, se no Amor, che mai nol lascia un passo, et l’immagine d’una che lo strugge, ché per sé fugge tutt’altre persone. |
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Sotto un gran sasso in una chiusa valle, ond’esce Sorga |
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CXLII (Sestina 5a) A la dolce ombra de le belle frondi corsi fuggendo un dispietato lume che’nfin qua giú m’ardea dal terzo cielo; et disgombrava già di neve i poggi l’aura amorosa che rinova il tempo, et fiorian per le piagge l’erbe e i rami. Non vide il mondo sí leggiadri rami, né mosse il vento mai sí verdi frondi come a me si mostrâr quel primo tempo: tal che, temendo de l’ardente lume, non volsi al mio refugio ombra di poggi, ma de la pianta piú gradita in cielo. Un lauro mi difese allor dal cielo, onde piú volte vago de’ bei rami da po’ son gito per selve et per poggi; né già mai ritrovai tronco né frondi tanto honorate dal superno lume che non mutasser qualitate a tempo. Però piú fermo ognor di tempo in tempo, seguendo ove chiamar m’udia dal cielo e scorto d’un soave et chiaro lume, tornai sempre devoto ai primi rami et quando a terra son sparte le frondi et quando il sol fa verdeggiar i poggi. Selve, sassi, campagne, fiumi et poggi, quanto è creato, vince et cangia il tempo: ond’io cheggio perdono a queste frondi, se rivolgendo poi molt’anni il cielo fuggir disposi gl’ invescati rami tosto ch’incominciai di veder lume. Tanto mi piacque prima il dolce lume ch’i’ passai con diletto assai gran poggi per poter appressar gli amati rami: ora la vita breve e ’l loco e ’l tempo mostranmi altro sentier di gire al cielo et di far frutto, non pur fior’ et frondi. Altr’amor, altre frondi et altro lume, altro salir al ciel per altri poggi cerco, ché n’é ben tempo, et altri rami. |
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Un lauro mi difese allor dal cielo | |
CXLIX (Ballata 6a) Di tempo in tempo mi si fa men dura l’angelica figura e ’l dolce riso, et l’aria del bel viso e degli occhi leggiadri meno oscura. Che fanno meco omai questi sospiri che nascean di dolore et mostravan di fore la mia angosciosa et desperata vita? S’aven che ’l volto in quella parte giri per acquetare il core, parmi vedere Amore mantener mia ragion, et darmi aita: Né però trovo anchor guerra finita, né tranquillo ogni stato del cor mio, ché piú m’arde ’l desio, quanto piú la speranza m’assicura. |
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Che fanno meco omai questi sospiri | |
CCVI (Canzone 19a) S’i’ ’l dissi mai, ch’i’ vegna in odio a quella del cui amor vivo, et senza ’l qual morrei; s’i’ ’l dissi, che miei dí sian pochi et rei, et di vil signoria l’anima ancella; s’i’ ’l dissi, contra me s’arme ogni stella, et dal mio lato sia Paura et Gelosia, et la nemica mia piú feroce ver ’me sempre et piú bella. S’i’ ’l dissi, Amor l’aurate sue quadrella spenda in me tutte, et l’impiombate in lei; s’i’ ’l dissi, cielo et terra, uomini et dèi mi sian contrari, et essa ognor piú fella; s’i’ ’l dissi, chi con sua cieca facella dritto a morte m’invia, pur come suol si stia, né mai piú dolce o pia ver’ me si mostri, in atto od in favella. S’i’ ’l dissi mai, di quel ch’i’ men vorrei piena trovi quest’aspra et breve via; s’i’ ’l dissi, il fero ardor che mi desvia cresca in me quanto il fier ghiaccio in costei; s’i’ ’l dissi, unqua non veggianli occhi mei sol chiaro, o sua sorella, né donna né donzella, ma terribil procella, qual Pharaone in perseguir li hebrei. S’i’ ’l dissi, coi sospir, quant’io mai fei, sia Pietà per me morta, et Cortesia; s’i’ ’l dissi, il dir s’innaspri, che s’udia sí dolce allor che vinto mi rendei; s’i’ ’l dissi, io spiaccia a quella ch’i’torrei sol, chiuso in fosca cella, dal dí che la mamella lasciai, finché si svella da me l’alma, adorar: forse e ’l farei. Ma s’io nol dissi, chi sí dolce apria meo cor a speme ne l’età novella, regg ’anchor questa stanca navicella col governo di sua pietà natia, né diventi altra, ma pur qual solia quando piú non potei, che me stesso perdei né piú perder devrei. Mal fa chi tanta fe’ sí tosto oblia. I’nol dissi già mai, né per dir poria per oro o per cittadi o per castella. Vinca ’l ver dunque, et si rimanga in sella, et vinta a terra caggia la bugia. Tu sai in me il tutto, Amor: s’ella ne spia, dinne quel che dir dêi. I’ beato direi, tre volte et quattro et sei, chi, devendo languir, si morí pria. Per Rachel ò servito, et non per Lia; né con altra saprei viver, et sosterrei, quando ’l ciel ne rappella, girmen con ella in sul carro de Helia. |
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meo cor a speme ne l’età novella | |
CCVII (Canzone 20a) Ben mi credea passar mio tempo omai come passato avea quest’anni a dietro, senz’altro studio et senza novi ingegni: or poi che da madonna i’ non impetro l’usata aita, a che condutto m’ài, tu ’l vedi, Amor, che tal arte m’insegni. Non so s’i’ me ne sdegni, che ’n questa età mi fa divenir ladro del bel lume leggiadro, senza ’l qual non vivrei in tanti affanni. Cosí avess’io i primi anni preso lo stil ch’or prender mi bisogna, ché 'n giovenil fallir è men vergogna. Li occhi soavi ond’io soglio aver vita, de le divine lor alte bellezze fûrmi in sul cominciar tanto cortesi, che ’n guisa d’uom cui non proprie ricchezze, ma celato di for soccorso aita, vissimi, che né lor né altri offesi. Or, bench’a me ne pesi, divento ingiurïoso et importuno: ché ’l poverel digiuno vèn ad atto talor che ’n miglior stato avria in altrui biasmato. Se le man’ di Pietà Invidia m’à chiuse, fame amorosa, e ’l non poter, mi scuse. Ch’i’ ò cercate già vie piú di mille per provar senza lor se mortal cosa mi potesse tener in vita un giorno. L’anima, poi ch’altrove non à posa, corre pur a l’angeliche faville; et io, che son di cera, al foco torno; et pongo mente intorno ove si fa men guardia a quel ch’i’ bramo; et come augel in ramo, ove men teme, ivi piú tosto è colto, cosí dal suo bel volto l’involo or uno et or un altro sguardo; et di ciò inseme mi nutrico et ardo. Di mia morte mi pasco, et vivo in fiamme: stranio cibo, et mirabil salamandra; ma miracol non è, da tal si vòle. Felice agnello a la penosa mandra mi giacqui un tempo; or a l’extremo famme et Fortuna et Amor pur come sòle: cosí rose et vïole à primavera, e ’l verno à neve et ghiaccio. Però, s’i’ mi procaccio quinci et quindi alimenti al viver curto, se vòl dir che sia furto, sí ricca donna deve esser contenta, s’altri vive del suo, ch’ella nol senta. Chi nol sa di chi vivo, et vissi sempre, dal dí che ’n prima que’ belli occhi vidi, che mi fecer cangiar vita et costume? Per cercar terra et mar da tutti lidi, chi pò saver tutte l’umane tempre? L'un vive, ecco, d'odor, là sul gran fiume; io qui di foco et lume queto i frali et famelici miei spirti. Amor, et vo’ ben dirti, disconvensi a signor l’esser sí parco. Tu ài li strali et l’arco: fa’ di tua man, non pur bramand’io mora, ch’un bel morir tutta la vita honora. Chiusa fiamma è piú ardente; et se pur cresce, in alcun modo piú non pò celarsi: Amor, i ’l so, che ’l provo a le tue mani. Vedesti ben, quando sí tacito arsi; or de’ miei gridi a ma medesmo incresce, che vo noiando et proximi et lontani. O mondo, o penser’ vani; o mia forte ventura a che m’adduce! O di che vaga luce al cor mi nacque la tenace speme, onde l’annoda et preme quella che con tua forza al fin mi mena! La colpa è vostra, et mio ’l danno et la pena. Cosí di ben amar porto tormento, et del peccato altrui cheggio perdóno: anzi del mio, che devea torcer li occhi dal troppo lume, et di sirene al suono chiuder li orecchi; et anchor non me ’n pento, che di dolce veleno il cor trabocchi. Aspett’io pur che scocchi l’ultimo colpo chi mi diede ’l primo; et fia, s’i’ dritto extimo, un modo di pietate occider tosto, non essendo ei disposto a far altro di me che quel che soglia: ché ben muor chi morendo esce di doglia. Canzon mia, fermo in campo starò, ch’elli è disnor morir fuggendo; et me stesso reprendo di tai lamenti; sí dolce è mia sorte, pianto, sospiri et morte. Servo d’Amor, che queste rime leggi, ben non à ’l mondo, che ’l mio mal pareggi. |
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Chiusa fiamma è piú ardente | |
CCXIV (Sestina 6a) Anzi tre dí creata era alma in parte da por sua cura in cose altere et nove, et dispregiar di quel ch’a molti è ’n pregio. Quest’anchor dubbia del fatal suo corso, sola pensando, pargoletta et sciolta, intrò di primavera in un bel bosco. Era un tenero fior nato in quel bosco il giorno avanti, et la radice in parte ch’appressar nol poteva anima sciolta: ché v’eran di lacciuo’ forme sí nove, et tal piacer precipitava al corso, che perder libertate ivi era in pregio. Caro, dolce, alto et faticoso pregio, che ratto mi volgesti al verde bosco usato di svïarne a mezzo ’l corso! Et ò cerco poi ’l mondo a parte a parte, se versi o petre o suco d’erbe nove mi rendesser un dí la mente sciolta. Ma, lasso, or veggio che la carne sciolta fia di quel nodo ond’è ’l suo maggior pregio prima che medicine, antiche o nove, saldin le piaghe ch’i’ presi in quel bosco, folto di spine, ond’i’ ò ben tal parte, che zoppo n’esco, e ’ntra’vi a sí gran corso. Pien di lacci et di stecchi un duro corso aggio a fornire, ove leggera et sciolta pianta avrebbe uopo, et sana d’ogni parte. Ma Tu, Signor, ch’ài di pietate il pregio, porgimi la man dextra in questo bosco: vinca ’l Tuo sol le mie tenebre nove. Guarda ’l mio stato, a le vaghezze nove che ’nterrompendo di mia vita il corso m’àn fatto habitador d’ombroso bosco; rendimi, s’esser pò, libera et sciolta l’errante mia consorte; et fia Tuo ’l pregio, s’anchor Teco la trovo in miglior parte. Or ecco in parte le question’ mie nove: s’alcun pregio in me vive, o ’n tutto è corso, o l’alma sciolta, o ritenuta al bosco. |
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intrò di primavera in un bel bosco | |
CCXXXVII (Sestina 7a) Non à tanti animali il mar fra l’onde, né lassú sopra ’l cerchio de la luna vide mai tante stelle alcuna notte, né tanti augelli albergan per li boschi, né tant’erbe ebbe mai il campo né piaggia, quant’à ’l mio cor pensier’ ciascuna sera. Di dí in dí spero ormai l’ultima sera che scevri in me dal vivo terren l’onde et mi lasci dormire in qualche piaggia, ché tanti affanni uom mai sotto la luna non sofferse quant’io: sannolsi i boschi, che sol vo ricercando giorno et notte. Io non ebbi già mai tranquilla notte, ma sospirando andai matino et sera, poi ch’Amor femmi un cittadin de’ boschi. Ben fia, prima ch’i’ posi, il mar senz’onde, et la sua luce avrà ’l sol da la luna, e i fior d’april morranno in ogni piaggia. Consumando mi vo di piaggia in piaggia el dí pensoso, poi piango la notte; né stato ò mai, se non quanto la luna. Ratto come imbrunir veggio la sera, sospir’ del petto, et de li occhi escono onde da bagnar l’erbe, et da crollare i boschi. Le città son nemiche, amici i boschi, a’miei pensier’, che per quest’alta piaggia sfogando vo col mormorar de l’onde, per lo dolce silentio de la notte: tal ch’io aspetto tutto ’l dí la sera, che ’l sol si parta et dia luogo a la luna. Deh or foss’io col vago de la luna adormentato in qua’ che verdi boschi, et questa ch’anzi vespro a me fa sera, con essa et con Amor in quella piaggia sola venisse a starsi ivi una notte; e ’l dí si stesse e ’l sol sempre ne l’onde. Sovra dure onde, al lume de la luna canzon nata di notte in mezzo i boschi, ricca di piaggia vedrai deman da sera. |
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Non à tanti animali il mar fra l’onde | |
CCXXXIX (Sestina 8a) Là ver’ l’aurora, che sí dolce l’aura al tempo novo suol movere i fiori, et li augelletti incominciar lor versi, sí dolcemente i pensier’ dentro a l’alma mover mi sento a chi li à tutti in forza, che ritornar convenmi a le mie note. Temprar potess’io in sí soavi note i miei sospiri ch’addolcissen Laura, faccendo a lei ragion ch’a me fa forza! Ma pria fia ’l verno la stagion de’ fiori, ch’amor fiorisca in quella nobil alma, che non curò già mai rime né versi. Quante lagrime, lasso, et quanti versi ò già sparti al mio tempo, e ’n quante note ò riprovato humilïar quell’alma! Ella si sta com’aspr’alpe a l’aura dolce, la qual ben move frondi et fiori, ma nulla pò se ’ncontra maggior forza. Homini et dèi solea vincer per forza Amor, come si legge in prose e ’n versi: et io ’l provai in sul primo aprir de’ fiori. Ora né ’l mio signor né le sue note né ’l pianger mio né i preghi pòn far Laura trarre o di vita o di martir quest’alma. A l’ultimo bisogno, o misera alma, accampa ogni tuo ingegno, ogni tua forza, mentre fra noi di vita alberga l’aura. Nulla al mondo è che non possano i versi; et li aspidi incantar sanno in lor note, nonché ’l gielo adornar con novi fiori. Ridon or per le piagge herbette et fiori: esser non pò che quella angelica alma non senta il suon de l’amorose note. Se nostra ria fortuna è di piú forza, lagrimando et cantando i nostri versi et col bue zoppo andrem cacciando l’aura. In rete accolgo l’aura, e ’n ghiaccio i fiori, e ’n versi tento sorda et rigida alma, che né forza d’Amor prezza né note. |
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A l’ultimo bisogno, o misera alma, accampa ogni tuo ingegno, ogni tua forza |
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CCLXIV (Canzone 21a) I’ vo pensando, et nel penser m’assale una pietà sí forte di me stesso, che mi conduce spesso ad altro lagrimar ch’i’ non soleva: ché, vedendo ogni giorno il fin piú presso, mille fïate ò chieste a Dio quell’ale co le quai del mortale carcer nostro intelletto al ciel si leva. Ma infin a qui nïente mi releva prego o sospiro o lagrimar ch’io faccia: e cosí per ragion conven che sia, ché chi, possendo star, cadde tra via, degno è che mal suo grado a terra giaccia. Quelle pietose braccia in ch’io mi fido, veggio aperte anchora, ma temenza m’accora per gli altrui exempli, et del mio stato tremo, ch’altri mi sprona, et son forse a l’extremo. L’un penser parla co la mente, et dice: - Che pur agogni? onde soccorso attendi? Misera, non intendi con quanto tuo disnore il tempo passa? Prendi partito accortamente, prendi; e del cor tuo divelli ogni radice del piacer che felice nol pò mai fare, et respirar nol lassa. Se già è gran tempo fastidita et lassa se’ di quel falso dolce fugitivo che ’l mondo traditor può dare altrui, a che ripon’ piú la speranza in lui, che d’ogni pace et di fermezza è privo? Mentre che ’l corpo è vivo, ài tu ’l freno in bailia de’ penser’ tuoi: deh stringilo or che pôi, ché dubbioso è ’l tardar come tu sai, e ’l cominciar non fia per tempo omai. Già sai tu ben quanta dolcezza porse agli occhi tuoi la vista di colei la qual ancho vorrei ch’a nascer fosse per piú nostra pace. Ben ti ricordi, et ricordar te ’n dêi, de l’imagine sua quand’ella corse al cor, là dove forse non potea fiammma intrar per altrui face: ella l’accese; et se l’ardor fallace durò molt’anni in aspectando un giorno, che per nostra salute unqua non vène, or ti solleva a piú beata spene, mirando ’l ciel che ti si volve intorno, immortal et addorno: ché dove, del mal suo qua giú sí lieta, vostra vaghezza acqueta un mover d’occhi, un ragionar, un canto, quanto fia quel piacer, se questo è tanto? - Da l’altra parte un pensier dolce et agro, con faticosa et dilectevol salma sedendosi entro l’alma, preme ’l cor di desio, di speme il pasce; che sol per fama glorïosa et alma non sente quand’io agghiaccio, o quand’io flagro, s’i’ son pallido o magro; et s’io l’occido piú forte rinasce. Questo d’allor ch’i’ m’addormiva in fasce venuto è di dí in dí crescendo meco, e temo ch’un sepolcro ambeduo chiuda. Poi che fia l’alma de le membra ignuda, non pò questo desio piú venir seco; ma se ’l latino e ’l greco parlan di me dopo la morte, è un vento: ond’io, perché pavento adunar sempre quel ch’un’ora sgombre, vorre’ ’l ver abbracciar, lassando l’ombre. Ma quell’altro voler di ch’i’son pieno, quanti press’a lui nascon par ch’adugge; e parte il tempo fugge che, scrivendo d’altrui, di me non calme; e ’l lume de’ begli occhi che mi strugge soavemente al suo caldo sereno, mi ritien con un freno contra chui nullo ingegno o forza valme. Che giova dunque perché tutta spalme la mia barchetta, poi che ’nfra li scogli è ritenuta anchor da ta’ duo nodi? Tu che dagli altri, che ’n diversi modi legano ’l mondo, in tutto mi disciogli, Signor mio, ché non togli omai dal volto mio questa vergogna? Ché ’n guisa d’uom che sogna, aver la morte inanzi gli occhi parme; et vorrei far difesa, et non ò l’arme. Quel ch’i’ fo veggio, et non m’inganna il vero mal conosciuto, anzi mi sforza Amore, che la strada d’onore mai nol lassa seguir, chi troppo il crede; et sento ad ora ad or venirmi al core un leggiadro disegno aspro et severo ch’ogni occulto pensero tira in mezzo la fronte, ov’altri ’l vede: ché mortal cosa amar con tanta fede quanta a Dio sol per debito convensi, piú si disdice a chi piú pregio brama. Et questo ad alta voce ancho richiama la ragione svïata dietro ai sensi; ma perch’ell’oda, et pensi tornare, il mal costume oltre la spigne, et agli occhi depigne quella che sol per farmi morir nacque, perch’a me troppo, et a se stessa, piacque. Né so che spatio mi si desse il cielo quando novellamente io venni in terra a soffrir l’aspra guerra che ’ncontra me medesmo seppi ordire; né posso il giorno che la vita serra antiveder per lo corporeo velo; ma varïarsi il pelo veggio, et dentro cangiarsi ogni desire. Or ch’i’ mi credo al tempo del partire esser vicino, o non molto da lunge, come chi ’l perder face accorto et saggio, vo ripensando ov’io lassai ’l vïaggio de la man destra, ch’a buon porto aggiunge: et da l’un lato punge vergogna et duol che ’ndietro mi rivolve; dall’altro non m’assolve un piacer per usanza in me sí forte ch’a patteggiar n’ardisce co la morte. Canzon, qui sono, ed ò ’l cor via piú freddo de la paura che gelata neve, sentendomi perir senz’alcun dubbio: ché pur deliberando ò vòlto al subbio gran parte omai de la mia tela breve; né mai peso fu greve quanto quel ch’i’ sostengo in tale stato: ché co la morte a lato cerco del viver mio novo consiglio, et veggio ’l meglio, et al peggior m’appiglio. |
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I’ vo pensando, et nel penser m’assale una pietà sí forte di me stesso |
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CCLXVIII (Canzone 22a) Che debb’io far? che mi consigli, Amore? Tempo è ben di morire, et ò tardato piú ch’i’ non vorrei. Madonna è morta, et à seco il mio core; et volendol seguire, interromper conven quest’anni rei, perché mai veder lei di qua non spero, et l’aspettar m’è noia. Poscia ch’ogni mia gioia per lo suo dipartire in pianto è volta, ogni dolcezza de mia vita è tolta. Amor, tu ’l senti, ond’io teco mi doglio, quant’è il damno aspro et grave; e so che del mio mal ti pesa et dole, anzi del nostro, perch’ad uno scoglio avem rotto la nave, et in un punto n’è scurato il sole. Qual ingegno a parole poria aguagliare il mio doglioso stato? Ahi orbo mondo, ingrato, gran cagion ài di dever pianger meco, ché quel bel ch’era in te, perduto ài seco. Caduta è la tua gloria, et tu nol vedi, né degno eri, mentr’ella visse qua giú, d’aver sua conoscenza, né d’esser tocco da’ suoi sancti piedi, perché cosa sí bella devea ’l ciel adornar di sua presenza. Ma io, lasso, che senza lei né vita mortal né me stesso amo, piangendo la richiamo: questo m’avanza di cotanta spene, et questo solo anchor qui mi mantene. Oïmè, terra è fatto il suo bel viso, che solea far del cielo et del ben di lassú fede fra noi; l’invisibil sua forma è in paradiso, disciolta di quel velo che qui fece ombra al fior degli anni suoi, per rivestirsen poi un’altra volta, et mai piú non spogliarsi, quando alma et bella farsi tanto piú la vedrem, quanto piú vale sempiterna bellezza che mortale. Piú che mai bella et piú leggiadra donna tornami inanzi, come là dove piú gradir sua vista sente. Questa è del viver mio l’una colomna, l’altra è ’l suo chiaro nome, che sona nel mio cor sí dolcemente. Ma tornandomi a mente che pur morta è la mia speranza, viva allor ch’ella fioriva, sa ben Amor qual io divento, et (spero) vedel colei ch’è or sí presso al vero. Donne, voi che miraste sua beltate et l’angelica vita con quel celeste portamento in terra, di me vi doglia, et vincavi pietate, non di lei ch’è salita a tanta pace, et m’à lassato in guerra: tal che s’altri mi serra lungo tempo il camin da seguitarla, quel ch’Amor meco parla, sol mi ritien ch’io non recida il nodo. Ma e’ ragiona dentro in cotal modo: - Pon’ freno al gran dolor che ti trasporta, ché per soverchie voglie si perde ’l cielo, ove ’l tuo core aspira, dove è viva colei ch’altrui par morta, et di sue belle spoglie seco sorride, et sol di te sospira; et sua fama, che spira in molte parti anchor per la tua lingua, prega che non extingua, anzi la voce al suo nome rischiari, se gli occhi suoi ti fur dolci né cari. - Fuggi ’l sereno e ’l verde, non t’appressare ove sia riso o canto, canzon mia no, ma pianto: non fa per te di star fra gente allegra, vedova, sconsolata, in vesta negra. |
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Che debb’io far? che mi consigli, Amore? | |
CCLXX (Canzone 23a) Amor, se vuo’ ch’i’torni al giogo anticho, come par che tu mostri, un’altra prova meravigliosa et nova, per domar me, conventi vincer pria. Il mio amato tesoro in terra trova, che m’è nascosto, ond’io son sí mendico, e ’l cor saggio pudico, ove suol albergar la vita mia; et s’egli è ver che tua potentia sia nel ciel sí grande come si ragiona, et ne l’abisso (perché qui fra noi quel che tu val’ et puoi, credo che ’l sente ogni gentil persona), ritogli a Morte quel ch’ella n’à tolto, et ripon’ le tue insegne nel bel volto. Riponi entro ’l bel viso il vivo lume ch’era mia scorta, et la soave fiamma ch’anchor, lasso, m’infiamma essendo spenta: or che fea dunque ardendo? E’ non si vide mai cervo né damma con tal desio cercar fonte né fiume, qual io il dolce costume onde ò già molto amaro; et piú n’attendo, se ben me stesso et mia vaghezza intendo, che mi fa vaneggiar sol del pensero, et gire in parte ove la strada manca, et co la mente stanca cosa seguir che mai giugner non spero. Or al tuo richiamar venir non degno, ché segnoria non ài fuor del tuo regno. Fammi sentir de quell’aura gentile di for, sí come dentro anchor si sente; la qual era possente, cantando, d’acquetar li sdegni et l’ire, di serenar la tempestosa mente et sgombrar d’ogni nebbia oscura et vile, ed alzava il mio stile sovra di sé, dove or non poria gire. Aguaglia la speranza col desire; et poi che l’alma è in sua ragion piú forte, rendi agli occhi, agli orecchi il proprio obgetto, senza qual imperfetto è lor oprare, e ’l mio vivere è morte. Indarno or sovra me tua forza adopre, mentre ’l mio primo amor terra ricopre. Fa ch’io riveggia il bel guardo, ch’un sole fu sopra ’l ghiaccio ond’io solea gir carco; fa’ ch’i’ ti trovi al varco, onde senza tornar passò ’l mio core; prendi i dorati strali, et prendi l’arco, et facciamisi udir, sí come sòle, col suon de le parole ne le quali io imparai che cosa è amore; movi la lingua, ov’erano a tutt’ore disposti gli ami ov’io fui preso, et l’ésca ch’i’ bramo sempre; e i tuoi lacci nascondi fra i capei crespi et biondi, ché il mio voler altrove non s’invesca; spargi co le tue man’ le chiome al vento, ivi mi lega, et puo’ mi far contento. Dal laccio d’òr non sia mai chi me scioglia, negletto ad arte, e ’nnanellato et hirto, né de l’ardente spirto de la sua vista dolcemente acerba, la qual dí et notte più che lauro o mirto tenea in me verde l’amorosa voglia, quando si veste et spoglia di fronde il bosco, et la campagna d’erba. Ma poi che Morte è stata sí superba che spezzò il nodo ond’io temea scampare, né trovar pôi, quantunque gira il mondo, di che ordischi ’l secondo, che giova, Amor, tuoi ingegni ritentare? Passata è la stagion, perduto ài l’arme, di ch’io tremava: ormai che puoi tu farme? L’arme tue furon gli occhi, onde l’accese saette uscivan d’invisibil foco, et ragion temean poco, ché ’ncontra ’l ciel non val difesa humana; il pensar e ’l tacer, il riso e ’l gioco, l’abito honesto e ’l ragionar cortese, le parole che ’ntese avrian fatto gentil d’alma villana, l’angelica sembianza, humile et piana, ch’or quinci or quindi udia tanto lodarsi; e ’l sedere et lo star, che spesso altrui poser in dubbio a cui devesse il pregio di piú laude darsi. Con quest’arme vincevi ogni cor duro: or se’ tu disarmato; i’ son securo. Gli animi ch’al tuo regno il cielo inchina leghi ora in uno et ora in altro modo; ma me sol ad un nodo legar potêi, ché ’l ciel di piú non volse. Quel’uno è rotto; e ’n libertà non godo ma piango et grido: "Ahi nobil pellegrina, qual sententia divina me legò inanzi, et te prima disciolse? Dio, che sí tosto al mondo ti ritolse, ne mostrò tanta et sí alta virtute solo per infiammar nostro desio". Certo ormai non tem’io, Amor, de la tua man nove ferute; indarno tendi l’arco, a voito scocchi; sua virtú cadde al chiuder de’ begli occhi. Morte m’à sciolto, Amor, d’ogni tua legge: quella che fu mia donna al ciel è gita, lasciando trista et libera mia vita. |
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Amor, se vuo’ ch’i’torni al giogo anticho | |
CCCXXIV (Ballata 7a) Amor, quando fioria mia spene, e ’l guidardon di tanta fede, tolta m’è quella ond’attendea mercede. Ahi dispietata morte, ahi crudel vita! L’una m’à posto in doglia, et mie speranze acerbamente à spente; l’altra mi tèn qua giú contra mia voglia, et lei che se n’è gita seguir non posso, ch’ella nol consente. Ma pur ogni or presente nel mezzo del meo cor madonna siede, et qual è la mia vita, ella sel vede. |
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nel mezzo del meo cor madonna siede | |
CCCXXV (Canzone 25a) Tacer non posso, et temo non adopre contrario effecto la mia lingua al core, che vorria far honore a la sua donna, che dal ciel n’ascolta. Come poss’io, se non m’insegni, Amore, con parole mortali aguagliar l’opre divine, et quel che copre alta humiltate, in se stessa raccolta? Ne la bella pregione, onde or è sciolta, poco era stato anchor l’alma gentile, al tempo che di lei prima m’accorsi: onde súbito corsi, ch’era de l’anno et di mi’ etate aprile, a coglier fiori in quei prati d’intorno, sperando a li occhi suoi piacer sí addorno. Muri eran d’alabastro, e ’l tetto d’oro, d’avorio uscio, et fenestre di zaffiro, onde ’l primo sospiro mi giunse al cor, et giugnerà l’extremo: Inde i messi d’Amor armati usciro di saette et di foco, ond’io di loro, coronati d’alloro, pur come or fusse, ripensando tremo. D’un bel diamante quadro, et mai non scemo, vi si vedea nel mezzo un seggio altero ove, sola, sedea, la bella donna: dinanzi, una colonna cristallina, et iv’entro ogni pensero scritto, et for tralucea sí chiaramente, che mi fea lieto, et sospirar sovente. A le pungenti, ardenti et lucide arme, a la vittorïosa insegna verde, contra cui in campo perde Giove et Apollo et Poliphemo et Marte, ov’è ’l pianto ognor fresco, et si rinverde, giunto mi vidi: et non possendo aitarme, preso lassai menarme ond’or non so d’uscir la via né l’arte. Ma sí com’uom talor che piange, et parte vede cosa che li occhi e ’l cor alletta, cosí colei per ch’io son in pregione, standosi ad un balcone, che fu sola a’ suoi dí cosa perfetta, cominciai a mirar con tal desio che me stesso e ’l mio mal posi in oblio. I’ era in terra, e ’l cor in paradiso, dolcemente oblïando ogni altra cura, et mia viva figura far sentia un marmo e ’mpiér di meraviglia, quando una donna assai pronta et secura, di tempo anticha, et giovene del viso, vedendomi sí fiso a l’atto de la fronte et de le ciglia: "Meco - mi disse -, meco ti consiglia, ch’i’ son d’altro poder che tu non credi; et so far lieti et tristi in un momento, piú leggiera che ’l vento, et reggo et volvo quando al mondo vedi. Tien’ pur li occhi come aquila in quel sole: parte da’ orecchi a queste mie parole. Il dí che costei nacque, eran le stelle che producon fra voi felici effecti in luoghi alti et electi, l’una ver’ l’altra con amor converse: Venere e ’l padre con benigni aspecti tenean le parti signorili et belle, et le luci impie et felle quasi in tutto del ciel eran disperse. Il sol mai sí bel giorno non aperse: l’aere et la terra s’allegrava, et l’acque per lo mar avean pace et per li fiumi. Fra tanti amici lumi, una nube lontana mi dispiacque: la qual temo che ’n pianto si resolve, se Pietate altramente il ciel non volve. Com’ella venne in questo viver basso, ch’a dir il ver non fu degno d’averla, cosa nova a vederla, già santissima et dolce anchor acerba, parea chiusa in òr fin candida perla; et or carpone, or con tremante passo, legno, acqua, terra, o sasso verde facea, chiara, soave, et l’erba con le palme o co i pie’ fresca et superba, et fiorir co i belli occhi le campagne, et acquetar i vènti et le tempeste con voci anchor non preste, di lingua che dal latte si scompagne: chiaro mostrando al mondo sordo et cieco quanto lume del ciel fusse già seco. Poi che crescendo in tempo et in virtute, giunse a la terza sua fiorita etate, leggiadria né beltate tanta non vide ’l sol, credo, già mai: li occhi pien’ di letitia et d’onestate, e ’l parlar di dolcezza et di salute. Tutte lingue son mute, a dir di lei quel che tu sol ne sai. Sí chiaro à ’l volto di celesti rai, che vostra vista in lui non pò fermarse; et da quel suo bel carcere terreno di tal foco ài ’l cor pieno, ch’altro piú dolcemente mai non arse: ma parmi che sua súbita partita tosto ti fia cagion d’amara vita". Detto questo, a la sua volubil rota si volse, in ch’ella fila il nostro stame, trista et certa indivina de’ miei danni: ché, dopo non molt’anni, quella per ch’io ò di morir tal fame, canzon mia, spense Morte acerba et rea, che piú bel corpo occider non potea. |
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Tacer non posso, et temo | |
CCCXXXI (Canzone 26a) Solea da la fontana di mia vita allontanarme, et cercar terre et mari, non mio voler, ma mia stella seguendo; et sempre andai, tal Amor diemmi aita, in quelli esilii quanto e’ vide amari, di memoria et di speme il cor pascendo. Or lasso, alzo la mano, et l’arme rendo a l’empia et vïolenta mia fortuna, che privo m’à di sí dolce speranza. Sol memoria m’avanza, et pasco ’l gran desir sol di quest’una: onde l’alma vien men frale et digiuna. Come a corrier tra via, se ’l cibo manca, conven per forza rallentare il corso, scemando la vertù che ’l fea gir presto, cosí, mancando a la mia vita stanca quel caro nutrimento in che di morso die’ chi ’l mondo fa nudo e ’l mio cor mesto, il dolce acerbo, e ’l bel piacer molesto mi si fa d’ora in hora, onde ’l camino sí breve non fornir spero et pavento. Nebbia o polvere al vento, fuggo per piúù non esser pellegrino: et così vada, s’è pur mio destino. Mai questa mortal vita a ma non piacque (sassel’ Amor con cui spesso ne parlo) se non per lei che fu ’l suo lume, e ’l mio: poi che ’n terra morendo, al ciel rinacque quello spirto ond’io vissi, a seguitarlo (licito fusse) è ’l mi’ sommo desio. Ma da dolermi ò ben sempre, perch’io fui mal accorto a provveder mio stato, ch’Amor mostrommi sotto quel bel ciglio per darmi altro consiglio: ché tal morí già tristo et sconsolato, cui poco inanzi era ’l morir beato. Nelli occhi ov’habitar solea ’l mio core fin che mia dura sorte invidia n’ebbe, che di sí ricco albergo il pose in bando, di sua man propria avea descritto Amore con lettre di pietà quel ch’averrebbe tosto del mio sí lungo ir desïando. Bello et dolce morire era allor quando, morend’io, non moria mia vita inseme, anzi vivea di me l’optima parte: or mie speranza sparte à Morte, et poca terra il mio ben preme; et vivo; et mai nol penso ch’i’ non treme. Se stato fusse il mio poco intellecto meco al bisogno, et non altra vaghezza l’avesse disvïando altrove vòlto, ne la fronte a madonna avrei ben lecto: - Alfin se’ giunto d’ogni tua dolcezza et al principio del tuo amaro molto. - Questo intendendo, dolcemente sciolto in sua presentia del mortal mio velo et di questa noiosa et grave carne, potea inanzi lei andarne, a veder preparar sua sedia in cielo: or l’andrò dietro, omai, con altro pelo. Canzon, s’uom trovi in suo amor viver queto, di’: - Muor’ mentre se’ lieto, ché morte al tempo è non duol, ma refugio; et chi ben pò morir, non cerchi indugio. - |
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Solea da la fontana di mia vita | |
CCCXXXII (Sestina 9a - "Sestina doppia") Mia benigna fortuna e ’l viver lieto, i chiari giorni et le tranquille notti e i soavi sospiri e ’l dolce stile che solea resonare in versi e ’n rime, vòlti subitamente in doglia e ’n pianto, odiar vita mi fanno, et bramar morte. Crudel, acerba, inexorabil Morte, cagion mi dài di mai non esser lieto, ma di menar tutta mia vita in pianto, e i giorni oscuri et le dogliose notti. I mei gravi sospir’ non vanno in rime, e ’l mio duro martir vince ogni stile. Ove è condutto il mio amoroso stile? A parlar d’ira, a ragionar di morte. U’ sono i versi, u’ son giunte le rime, che gentil cor udia pensoso et lieto; ove ’l favoleggiar d’amor le notti? Or non parl’io, né penso, altro che pianto. Già mi fu col desir sí dolce il pianto, che condia di dolcezza ogni agro stile, et vegghiar mi facea tutte le notti: or m’è ’l pianger amaro piú che morte, non sperando mai ’l guardo honesto et lieto, alto sogetto a le mie basse rime. Chiaro segno Amor pose a le mie rime dentro a’ belli occhi, et or l’à posto in pianto, con dolor rimembrando il tempo lieto: ond’io vo col penser cangiando stile, et ripregando te, pallida Morte, che mi sottragghi a sí penose notti. Fuggito è ’l sonno a le mie crude notti, e ’l suono usato a le mie roche rime, che non sanno trattar altro che morte, cosí è ’l mio cantar converso in pianto. Non à ’l regno d’Amor sí vario stile, ch’è tanto or tristo quanto mai fu lieto. Nesun visse già mai piú di me lieto, nesun vive piú tristo et giorni et notti; et doppiando ’l dolor, doppia lo stile che trae del cor sí lagrimose rime. Vissi di speme, or vivo pur di pianto, né contra Morte spero altro che Morte. Morte m’à morto, et sola pò far Morte ch’i’ torni a riveder quel viso lieto che piacer mi facea i sospiri e ’l pianto, l’aura dolce et la pioggia a le mie notti, quando i penseri electi tessea in rime, Amor alzando il mio debile stile. Or avess’io un sí pietoso stile che Laura mia potesse tôrre a Morte, come Euridice Orpheo sua senza rime, ch’i’ vivrei anchor piú che mai lieto! S’esser non pò, qualchuna d’este notti chiuda omai queste due fonti di pianto. Amor, i’ ò molti et molt’anni pianto mio grave danno in doloroso stile, né da te spero mai men fere notti: et però mi son mosso a pregar Morte che mi tolla di qui, per farme lieto, ove è colei ch’i’ canto et piango in rime. Se sí alto pôn gir mie stanche rime, ch’agiungan lei ch’è fuor d’ira et di pianto, et fa ’l ciel or di sue bellezze lieto, ben riconoscerà ’l mutato stile, che già forse le piacque anzi che Morte chiaro a lei giorno, a me fesse atre notti. O voi che sospirate a miglior’ notti, ch’ascoltate d’Amore o dite in rime, pregate non mi sia piú sorda Morte, porto de le miserie et fin del pianto; muti una volta quel suo antiquo stile, ch’ogni uom attrista, et me pò far sí lieto. Far mi pò lieto in una o ’n poche notti: e ’n aspro stile e ’n angosciose rime prego che ’l pianto mio finisca Morte. |
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né contra Morte spero altro che Morte | |
CCCLIX (Canzone 27a) Quando il soave mio fido conforto per dar riposo a la mia vita stanca ponsi del letto in su la sponda manca con quel suo dolce ragionare accorto, tutto di pietà et di paura smorto dico:"Onde vien’ tu ora, o felice alma?" Un ramoscel di palma et un di lauro trae del suo bel seno, et dice:"Dal sereno ciel empireo et di quelle sante parti mi mossi et vengo sol per consolarti". In atto et in parole la ringratio humilmente, et poi demando:"Or donde sai tu il mio stato?" Et ella: "Le triste onde del pianto, di che mai tu non se’ satio, coll’aura de’ sospir’, per tanto spatio passano al cielo, et turban la mia pace: sí forte ti dispiace che di questa miseria sia partita, et giunta a miglior vita; che piacer ti devria, se tu m’amasti quanto in sembianti et ne’ tuoi dir’ mostrasti". Rispondo: "Io non piango altro che me stesso che son rimaso in tenebre e ’n martire, certo sempre del tuo al ciel salire come di cosa ch’uom vede da presso. Come Dio et Natura avrebben messo in un cor giovenil tanta vertute, se l’eterna salute non fusse destinata al tuo ben fare, o de l’anime rare, ch’altamente vivesti qui tra noi, et che súbito al ciel volasti poi? Ma io che debbo altro che pianger sempre, misero et sol, che senza te son nulla? Ch’or fuss’io spento al latte et a la culla, per non provar de l’amorose tempre!"_ Et ella: "A che pur piangi et ti distempre? Quanto era meglio alzar da terra l’ali, et le cose mortali et queste dolci tue fallaci ciance librar con giusta lance, et seguir me, s’è ver che tanto m’ami, cogliendo omai qualchun di questi rami!" "I’ volea demandar - respond’io allora - : Che voglion importar quelle due frondi?"_ Et ella: "Tu medesmo ti rispondi, tu la cui non penna tanto l’una honora: palma è victoria, et io, giovene anchora, vinsi il mondo, et me stessa; il lauro segna trïumpho, ond’io son degna, mercé di quel Signor che mi die’ forza. Or tu, s’altri ti sforza, a Lui ti volgi, a Lui chiedi soccorso, sí che siam Seco al fine del tuo corso". "Son questi i capei biondi, et l’aureo nodo, - dich’io - ch’ancor mi stringe, et quei belli occhi che fur mio sol? " "Non errar con li sciocchi, né parlar - dice - o creder a lor modo. Spirito ignudo sono, e ’n ciel mi godo: quel che tu cerchi è terra, già molt’anni, ma per trarti d’affanni m’è dato a parer tale; et anchor quella sarò, piú che mai bella, a te piú cara, sí selvaggia et pia, salvando inseme tua salute et mia". I’ piango; et ella il volto co le sue man’ m’asciuga, et poi sospira dolcemente, et s’adira con parole che i sassi romper ponno: et dopo questo si parte ella, e ’l sonno. |
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et dopo questo si parte ella, e ’l sonno | |
CCCLX (Canzone 28a) Quel’antiquo mio dolce empio signore fatto citar dinanzi a la reina che la parte divina tien di natura nostra e ’n cima sede, ivi, com’oro che nel foco affina, mi rappresento cerco di dolore, di paura et d’orrore, quasi huom che teme morte et ragion chiede; e ’ncomincio: - Madonna, il manco piede giovenetto pos’io nel costui regno, ond’altro ch’ira et sdegno non ebbi mai; et tanti et sí diversi tormenti ivi soffersi, ch’alfine vinta fu quell’infinita mia patïentia, e ’n odio ebbi la vita. Cosí ’l mio tempo infin qui trapassato è in fiamma e ’n pene: et quante utili honeste vie sprezzai, quante feste, per servir questo lusinghier crudele! Et qual ingegno à sí parole preste, che stringer possa ’l mio infelice stato, et le mie d’esto ingrato tanto et sí gravi e sí giuste querele? O poco mèl, molto aloè con fele! In quanto amaro à la mia vita avezza con sua falsa dolcezza, la qual m’atrasse a l’amorosa schiera! Che s’i’ non m’inganno, era disposto a sollevarmi alto da terra: e’ mi tolse di pace et pose in guerra. Questi m’à fatto men amare Dio ch’i’ non deveva, et men curar me stesso: per una donna ò messo egualmente in non cale ogni pensero. Di ciò m’è stato consiglier sol esso, sempr’aguzzando il giovenil desio a l’empia cote, ond’io sperai riposo al suo giogo aspro et fero. Misero, a che quel chiaro ingegno altero, et l’altre doti a me date dal cielo? ché vo cangiando ’l pelo, né cangiar posso l’ostinata voglia: cosí in tutto mi spoglia di libertà questo crudel ch’i’ accuso, ch’amaro viver m’à vòlto in dolce uso. Cercar m’à fatto deserti paesi, fiere et ladri rapaci, hispidi dumi, dure genti et costumi, et ogni error che’ pellegrini intrica, monti, valli, paludi et mari et fiumi, mille lacciuoli in ogni parte tesi; e ’l verno in strani mesi, con pericol presente et con fatica: né costui né quell’altra mia nemica ch’i’ fuggía, mi lasciavan sol un punto; onde, s’i’ non son giunto anzi tempo da morte acerba et dura, pietà celeste à cura di mia salute non questo tiranno che del mio duol si pasce, et del mio danno. Poi che suo fui non ebbi hora tranquilla, né spero aver, et le mie notti il sonno sbandiro, et piú non ponno per herbe o per incanti a sé ritrarlo. Per inganni et per forza è fatto donno sovra miei spirti; et no sonò poi squilla, ov’io sia, in qualche villa, ch’i’ non l’udisse. Ei sa che ’l vero parlo: ché legno vecchio mai non róse tarlo come questi ’l mio core, in che s’annida, et di morte lo sfida. Quinci nascon le lagrime e i martiri, le parole e i sospiri, di ch’io mi vo stancando, et forse altrui. Giudica tu, che me conosci et lui. - Il mio adversario con agre rampogne comincia: - O donna, intendi l’altra parte, ché ’l vero, onde si parte quest’ingrato, dirà senza defecto. Questi in sua prima età fu dato a l’arte da vender parolette, anzi menzogne; né par che si vergogne, tolto da quella noia al mio dilecto, lamentarsi di me, che puro et netto, contra ’l desio, che spesso il suo mal vòle, lui tenni, ond’or si dole, in dolce vita, ch’ei miseria chiama: salito in qualche fama solo per me, che ’l suo intellecto alzai ov’alzato per sé non fôra mai. Ei sa che ’l grande Atride et l’alto Achille, et Hanibàl al terren vostro amaro, et di tutti il piú chiaro un altro et di vertute et di fortuna, com’a ciascun le sue stelle ordinaro, lasciai cader in vil amor d’ancille: et a costui di mille donne electe, excellenti, n’elessi una, qual non si vedrà mai sotto la luna, benché Lucretia ritornasse a Roma; et sí dolce ydïoma le diedi, et un cantar tanto soave, che penser basso o grave non poté mai durar dinanzi a lei. Questi fur con costui li ’nganni mei. Questo fu il fel, questi li sdegni et l’ire, piú dolci assai che di null’altra il tutto. Di bon seme mal frutto mieto; et tal merito à chi ’ngrato serve. Sí l’avea sotto l’ali mie condutto, ch’a donne et cavalier piacea il suo dire; et sí alto salire i’’l feci, che tra’ caldi ingegni ferve il suo nome et de’ suoi detti conserve si fanno con diletto in alcun loco; ch’or saria forse un roco mormorador di corti, un huom del vulgo: i’ l’exalto et divulgo, per quel ch’elli ’mparò ne la mia scola, et da colei che fu nel mondo sola. Et per dir a l’extremo il gran servigio, da mille acti inhonesti l’ò ritratto, ché mai per alcun pacto a lui piacer non poteo cosa vile: giovene schivo et vergognoso in acto et in penser, poi che fatto era huom ligio di lei ch’alto vestigio li ’mpresse al core, et fecel suo simíle. Quanto à del pellegrino et del gentile, da lei tene, et da me, di cui si biasma. Mai nocturno fantasma d’error non fu sí pien com’ei vèr’ noi: ch’è in gratia, da poi che ne conobbe, a Dio et a la gente. Di ciò il superbo si lamenta et pente. Ancor, et questo è quel che tutto avanza, da volar sopra ’l ciel li avea dat’ali per le cose mortali, che son scala al fattor, chi ben l’estima; ché mirando ei ben fiso quante et quali eran vertuti in quella sua speranza, d’una in altra sembianza potea levarsi a l’alta cagion prima; et ei l’à detto alcuna volta in rima, or m’à posto in oblio con quella donna ch’i’ li die’ per colonna de la sua frale vita. - A questo un strido lagrimoso alzo et grido: - Ben me la die’, ma tosto la ritolse. - Responde: - Io no, ma Chi per sé la volse. - Alfin ambo conversi al giusto seggio, i’ con tremanti, ei con voci alte et crude, ciascun per sé conchiude: - Nobile donna, tua sententia attendo. - Ella allor sorridendo: - Piacemi aver vostre questioni udite, ma piú tempo bisogna a tanta lite. - |
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Quel’antiquo mio dolce empio signore | |
(Canzone 29a) Vergine bella, che di sol vestita, coronata di stelle, al sommo Sole piacesti sí, che ’n te Sua luce ascose, amor mi spinge a dir di te parole: ma non so ’ncominciar senza tu’ aita, et di Colui ch’amando in te si pose. Invoco lei che ben sempre rispose, chi la chiamò con fede: Vergine, s’a mercede miseria extrema de l’humane cose già mai ti volse, al mio prego t’inchina, soccorri a la mia guerra, bench’i’ sia terra, et tu del ciel regina. Vergine saggia, et del bel numero una de le beate vergini prudenti, anzi la prima, et con piú chiara lampa; o saldo scudo de l’afflicte genti contra colpi di Morte et di Fortuna, sotto ’l qual si trïumpha, non pur scampa; o refrigerio al cieco ardor ch’avampa qui fra i mortali sciocchi: Vergine, que’ belli occhi che vider tristi la spietata stampa ne’ dolci membri del tuo caro figlio, volgi al mio dubbio stato, che sconsigliato a te vèn per consiglio. Vergine pura, d’ogni parte intera, del tuo parto gentil figliola et madre, ch’allumi questa vita, et l’altra adorni, per te il tuo figlio, et quel del sommo Padre, o fenestra del ciel lucente altera, venne a salvarne in su li extremi giorni; et fra tutt’i terreni altri soggiorni sola tu fosti electa, Vergine benedetta, che ’l pianto d’Eva in allegrezza torni. Fammi, ché puoi, de la Sua gratia degno, senza fine o beata, già coronata nel superno regno. Vergine santa d’ogni gratia piena, che per vera et altissima humiltate salisti al ciel onde miei preghi ascolti, tu partoristi il fonte di pietate, et di giustitia il sol, che rasserena il secol pien d’errori oscuri et folti; tre dolci et cari nomi ài in te raccolti, madre, figliuola et sposa: Vergina glorïosa, donna del Re che nostri lacci à sciolti et fatto ’l mondo libero et felice, ne le cui sante piaghe prego ch’appaghe il cor, vera beatrice. Vergine sola al mondo senza exempio, che ’l ciel di tue bellezze innamorasti, cui né prima fu simil né seconda, santi penseri, atti pietosi et casti al vero Dio sacrato et vivo tempio fecero in tua verginità feconda. Per te pò la mia vita esser ioconda, s’a’ tuoi preghi, o Maria, Vergine dolce et pia, ove ’l fallo abondò, la gratia abonda. Con le ginocchia de la mente inchine, prego che sia mia scorta, et la mia torta via drizzi a buon fine. Vergine chiara et stabile in eterno, di questo tempestoso mare stella, d’ogni fedel nocchier fidata guida, pon’ mente in che terribile procella i’ mi ritrovo sol, senza governo, et ò già da vicin l’ultime strida. Ma pur in te l’anima mia si fida, peccatrice, i’ no ’l nego, Vergine; ma ti prego che ’l tuo nemico del mio mal non rida: ricorditi che fece il peccar nostro, prender Dio per scamparne, humana carne al tuo virginal chiostro. Vergine, quante lagrime ò già sparte, quante lusinghe et quanti preghi indarno, pur per mia pena et per mio grave danno! Da poi ch’i’ nacqui in su la riva d’Arno, cercando or questa et or quel’altra parte, non è stata mia vita altro ch’affanno. Mortal bellezza, atti et parole m’ànno tutta ingombrata l’alma. Vergine sacra et alma, non tardar, ch’i’ son forse a l’ultimo anno. I dí miei piú correnti che saetta fra miserie et peccati sonsen’ andati, et sol Morte n’aspetta. Vergine, tale è terra, et posto à in doglia lo mio cor, che vivendo in pianto il tenne et de mille miei mali un non sapea: et per saperlo, pur quel che n’avenne fôra avenuto, ch’ogni altra sua voglia era a me morte, et a lei fama rea. Or tu donna del ciel, tu nostra dea (se dir lice, e convensi), Vergine d’alti sensi, tu vedi il tutto; e quel che non potea far altri, è nulla a la tua gran vertute, por fine al mio dolore; ch’a te honore, et a me fia salute. Vergine, in cui ò tutta mia speranza che possi et vogli al gran bisogno aitarme, non mi lasciare in su l’extremo passo. Non guardar me, ma Chi degnò crearme; no ’l mio valor, ma l’alta Sua sembianza, ch’è in me, ti mova a curar d’uom sí basso. Medusa et l’error mio m’àn fatto un sasso d’umor vano stillante: Vergine, tu di sante lagrime et pïe adempi ’l meo cor lasso, ch’almen l’ultimo pianto sia devoto, senza terrestro limo, come fu ’l primo non d’insania vòto. Vergine humana, et nemica d’orgoglio, del comune principio amor t’induca: miserere d’un cor contrito humile. Che se poca mortal terra caduca amar con sí mirabil fede soglio, che devrò far di te, cosa gentile? Se dal mio stato assai misero et vile per le tue man’ resurgo, Vergine, i’ sacro et purgo al tuo nome et penseri e ’ngegno et stile, la lingua e ’l cor, le lagrime e i sospiri. Scorgimi al miglior guado, et prendi in grado i cangiati desiri. Il dí s’appressa, et non pòte esser lunge, sí corre il tempo et vola, Vergine unica et sola, e ’l cor or coscïentia or morte punge. Raccomandami al tuo figliuol, verace homo et verace Dio, ch’accolga ’l mïo spirto ultimo in pace. |
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ch’accolga ’l mïo spirto ultimo in pace. | |